La scarsità di investimenti è uno dei mali più gravi che affligge il nostro Paese. Le conseguenze di questo fenomeno sono ormai tristemente note: l’occupazione è in calo costante, la capacità d’innovazione mostra un tasso nettamente inferiore rispetto ai principali competitors e mancano le opportunità per inserire nel mercato un numero indefinito di menti brillanti.
La carenza di disponibilità economica per investire in infrastrutture incide inevitabilmente sul tessuto produttivo da un lato e sulla qualità della vita dall’altro, innescando un meccanismo perverso che porta alla perdita di benessere per l’intera collettività. L’aspetto più controverso della questione riguarda tuttavia le cause, piuttosto che le conseguenze, di questa conclamata incapacità italiana di attrarre finanziamenti. Si tratta di un misto di inefficienza, burocrazia, scarsa competenza tecnica e gestione volutamente fraudolenta della cosa pubblica, il cui risultato è una giungla dove il privato non viene certo incoraggiato a rischiare il proprio capitale.
L’Italia, negli anni dell’abbondanza, ha sopperito all’assenza di un settore privato dinamico attraverso il massiccio impiego di soldi pubblici, mettendo in piedi il complesso sistema delle partecipate e auto-finanziando, attraverso le imposte ed il ricorso al debito, la costruzione di infrastrutture di importanza vitale. Tale scelta, in un contesto di forte crescita e sviluppo economico, è stata senza dubbio funzionale rispetto alle aspirazioni del Paese e soprattutto sostenibile da un punto di vista fiscale, visto l’incremento vertiginoso dei salari medi e quindi delle entrate. Quando, già dagli anni ’80, lo scenario economico è iniziato a mutare radicalmente, la giostra non si è fermata: l’enorme debito accumulato ha portato alla situazione odierna, dove lo Stato non può quasi permettersi di pagare l’ordinario, figuriamoci le grandi (e piccole) opere infrastrutturali.
Al momento, dunque, il belpaese ristagna in un circolo vizioso, dove servirebbero soldi che non ci sono più per rilanciare l’economia attraverso gli investimenti, la cui assenza danneggia ulteriormente le condizioni delle famiglie e quindi delle casse pubbliche. Sarebbe dunque una buona occasione per implementare metodi alternativi per finanziare i progetti, attraverso il coinvolgimento di investitori privati, che dispongono del capitale ma non vogliono certo dissiparlo. Il capitale, appunto, va remunerato: chi investe deve trarre un profitto dal rischio che corre e di conseguenza chiede adeguate garanzie. I modelli misti pubblico-privato nascono proprio per sfruttare le potenzialità generate dall’introduzione di logiche legate al profitto all’interno di schemi di natura prettamente pubblicistica. Gli obiettivi di entrambe le parti vanno ad incontrarsi, in quanto una Pubblica Amministrazione, grande o piccola che sia, può implementare progetti al servizio della comunità superando il problema legato alla disponibilità di fondi, mentre l’imprenditore ne trae un vantaggio economico.
Gli schemi di PPP (Partenariato Pubblico-Privato) sono costruiti in modo tale da garantire una maggiore efficienza all’intero processo di implementazione di un progetto. La forma più diffusa è quella della concessione, per cui al privato investitore viene conferito il diritto di godere dei frutti di una determinata opera per un periodo limitato di tempo. Nel caso di un’autostrada, ad esempio, lo Stato può concedere l’assegnazione di una percentuale sul pedaggio, mentre se si tratta di una stazione ferroviaria si può assegnare la licenza per i negozi all’interno. Un tassello chiave per l’avvio di un progetto di PPP riguarda il coinvolgimento delle banche, in grado di fornire la liquidità necessaria a copertura delle spese, dalla progettazione fino alla chiusura dei lavori. Procedimenti di questo tipo richiedono spesso somme ingenti e la partecipazione coordinata di una varietà di soggetti, tra imprese, banche, società esterne ed amministratori pubblici. Per fronteggiare la complessità della gestione, in molti paesi sono state costituite specifiche unità governative di supporto, con funzioni di controllo e soprattutto di supporto tecnico: in Italia tale compito è affidato alla UTFP (Unità Tecnica Finanza di Progetto), dipendente dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
In Europa il mercato dei progetti di PPP ammonta a circa 11 miliardi di euro, in netto calo rispetto agli anni precedenti, visto che nel 2007 il totale era di 30 miliardi. Regno Unito e Francia sono di gran lunga i principali utilizzatori di questo schema, per cui 9 degli 11 miliardi realizzati dal mercato riguardano progetti finanziati in questi due Paesi. La caduta in termini monetari dei progetti non ha origine solamente nelle difficoltà tecniche di implementazione, che rimangono significative, ma indica un netto spostamento verso progetti infrastrutturali di dimensioni ridotte, soprattutto a causa della durissima crisi economica. Grandi arterie autostradali e ferrovie ad alta velocità stanno man mano lasciando il passo a strutture ricettive, rinnovamento di ospedali, costruzione di impianti per la produzione elettrica da fonti rinnovabili. A questo occorre aggiungere che nelle statistiche raccolte dall’EPEC (European PPP Expertise Centre) vengono inclusi solo i progetti che raggiungono la Financial Closure, ovvero lo stadio finale del processo, rappresentando meno del 30% rispetto al totale dei progetti banditi.
Nel caso specifico dell’Italia, i progetti di PPP che raggiungono la Financial Closure rappresentano una percentuale molto bassa rispetto a quelli banditi. I dati principali che emergono dalle statistiche raccolte dall’UTFP dimostrano le enormi difficoltà che la Pubblica Amministrazione deve affrontare, una volta bandito il progetto, per arrivare ad metterlo in pratica. La proverbiale lentezza e farraginosità della burocrazia nostrana rappresenta senza dubbio l’ostacolo principe: la concessione di permessi, i meccanismi di approvazione congiunta, l’incompetenza di molti addetti ai lavori sono solo alcuni aspetti di un fenomeno che, nonostante svariate promesse e tentativi di riforma, rimane semplicemente ingessato. Tale contesto mal si concilia con gli interessi di banche ed imprese private che, prima di ogni altra cosa, necessitano di certezze sulla fattibilità di un’opera e sul rispetto dei tempi. Esemplare, in tal senso, il caso dell’alta velocità Torino-Lione, finanziata con capitali sia pubblici che privati, di cui è ignota addirittura la fattibilità, nonostante i lavori siano già iniziati.
Non c’è dubbio che il settore dei PPP sia destinato a crescere, vista la ristrettezza economica in cui versano i governi dei Paesi occidentali e l’imposizione di regole ferree sul controllo dei bilanci pubblici. Affinché questo diventi uno strumento utile occorre, tuttavia, che la Pubblica Amministrazione, nelle vesti di un grande ministero o di un piccolo comune, si rinnovi profondamente, quantomeno sotto due aspetti fondamentali: il primo riguarda la semplificazione burocratica, necessaria per eliminare le barriere legislative agli investimenti; il secondo, forse più importante, concerne il rinnovamento del capitale umano, attraverso un profondo aggiornamento delle conoscenze e delle competenze tecniche.
Utfp news ott-dic 2012