La sentenza di condanna dell’amministratore delegato della Thyssen Krupp di Torino è stata definita storica. La decisione poggia però sul dolo eventuale. Un’elaborazione giuridica del reato di omicidio che vede la giurisprudenza molto rigida. La possibilità che venga modificata in Cassazione è alta.
La condanna a 16 anni e mezzo di carcere di Harald Espenhahn, amministratore delegato della Thyssen Krupp di Torino, con l’accusa di omicidio volontario per la morte dei sette operai coinvolti nell’incendio che scoppiò nella fabbrica il 6 dicembre 2007, è stata accolta – non solo dalle parti civili e dalla pubblica accusa, ciò che era ovvio – come una svolta storica nella lotta alla violazione delle norme antinfortuni. Esponenti politici (e questo conta poco), rappresentanti sindacali (che di diritto non capiscono granché), ma anche magistrati e giuristi (e questo è più grave), si sono affrettati a saltare sul carro del (momentaneo) vincitore.
Riflettendo su questa vicenda scopriamo che anche in un caso come questo bisognerebbe ragionare alzando lo sguardo e approfittarne per trarne delle considerazioni che, come sempre, coinvolgono alla fine anche il legislatore e il modo di organizzare la vita, civile, di uno Stato.
La condanna giusta
Attenzione, intendiamoci subito: non abbiamo nessuna intenzione di sostenere che non sia giusta la condanna in sé. Il punto è, come sempre, cercare di fare informazione (e non limitarsi a vomitare notizie) e riflettere.
In un paese basato sul rispetto delle regole che ci si è liberamente dati, in un paese dove – come in tutte le democrazie – il diritto è l’unico vero scudo di libertà e giustizia – per quanto concretamente possibili – una condanna basata su canoni giuridici deboli, nonostante sia emozionalmente condivisa in quel preciso momento storico, non è un successo. E’ un rischio. Perché potrebbe essere successivamente modificata con un inevitabile effetto “delusione e amarezza” e un correlativo, dannoso “effetto esultanza” di chi, invece, resta comunque colpevole.
A questo si aggiunga che, come raccontiamo anche nell’editoriale video di questo numero, una sanzione sproporzionata o fuori contesto, o ancora irrogata in forza di una legge applicata male e dunque resa di difficile conoscenza, viene vissuta come sopruso, rifiutata, e trasforma il colpevole in vittima sia agli occhi di se stesso che di una parte della collettività.
Omicidio volontario
Il punto debole della sentenza Thyssen, se si leggono con attenzione senza farsi trasportare dalle emozioni (come sempre dovrebbe fare la giustizia) da un lato le prescrizioni del codice penale e dall’altro le montagne di sentenze che si sono accumulate nel corso di sessant’anni in riferimento ai reati di omicidio volontario e omicidio colposo, è proprio quello che è stato invece considerato il suo punto di forza, il passaggio rivoluzionario. La decisione di condannare per omicidio volontario l’amministratore delegato che deliberatamente, ossia volontariamente, si mostra indifferente ai problemi della sicurezza in fabbrica, è strettamente legata ad una elaborazione di uno dei, diciamo così, “requisiti” del reato di omicidio che è stata messa a punto prima dalla dottrina e poi dalla giurisprudenza.
Nell’analizzare, per giudicarlo, il comportamento di chi ha commesso un reato, i giudici devono tenere conto (lo dice il codice penale) di due cose: l’elemento soggettivo, cioè le caratteristiche della volontà di chi è accusato del reato, e l’elemento oggettivo che possiamo definire come le circostanze reali, effettive, nelle quali il fatto, il delitto, si è svolto.
Nell’omicidio volontario l’aspetto più rilevante dell’elemento soggettivo è la volontà di uccidere (l’animus necandi). La volontà può avere diversi gradi di “intensità” ciascuno dei quali porta a un diverso epilogo e a una diversa accusa.
I vari tipi di omicidio
Senza trasformare questa riflessione in un trattato di diritto penale, va però ricordato che già la legge prevede diversi tipi di omicidio. Se A uccide B e la sua intenzione era proprio quella, si è in presenza di un omicidio volontario, per così dire, classico. La pena minima è 21 anni che possono diventare 30 con determinate aggravanti (anche essere recidivi è un’aggravante) fino a trasformarsi in ergastolo se, ad esempio, il delitto è stato organizzato in precedenza, cioè premeditato. Se invece A non vuole uccidere B e, per esempio, gli spara ad un piede, o ad un braccio, ma ciò ne provoca ugualmente la morte (magari per dissanguamento), l’omicidio è preterintenzionale. E’ andato cioè oltre l’intenzione (dal latino praeter: oltre). Ancora: se A vuole uccidere B ma per errore colpisce e uccide C che era vicino alla vittima designata, l’omicidio, sempre volontario, è caratterizzato dalla cosiddetta aberratio ictus (dal latino aberrare: sbagliare e ictus: colpo, quindi colpo sbagliato). In tutti questi casi il giudice può diminuire la pena in misura maggiore o minore in considerazione delle modalità del fatto.
Il dolo eventuale
Nel corso degli anni, come dicevamo, prima la dottrina, ossia i giuristi, e poi la giurisprudenza, cioè i giudici, hanno via via “raffinato” l’analisi della volontà dell’assassino, mettendo a punto una figura che è, per così dire, a metà strada tra l’ipotesi più grave di omicidio colposo (che è l’omicidio avvenuto per colpa e non per dolo, ossia senza che ci fosse alcuna precedente coscienza della volontà di uccidere) e quella meno grave di omicidio volontario. E’ questo il dolo eventuale. Per capire di che si tratta basta leggere una delle tante sentenze in materia: “risponde del reato di omicidio a titolo di dolo eventuale chi ha accettato il rischio del suo avverarsi pur di portare a termine l’azione criminosa”. Un esempio: il rapinatore imbavaglia il padrone di casa per portare a termine la rapina e questo intanto muore per difficoltà a respirare. Non si tratta di omicidio preterintenzionale perché la morte non è causa diretta dell’azione: imbavagliare qualcuno non significa ferirlo. Ma in effetti, hanno ragionato i giudici, è qualcosa di più di un omicidio colposo, anche aggravato dalla previsione dell’evento. Ecco dunque l’omicidio volontario con dolo eventuale che consente di condannare il colpevole ad una pena un po’ più alta dell’omicidio colposo aggravato ma più bassa (18 anni) dell’omicidio volontario “normale”.
La differenza con l’omicidio colposo aggravato
E’ sempre la Cassazione, nel corso degli anni, ad aver chiarito le differenze tra omicidio volontario a dolo eventuale e omicidio colposo aggravato: “si configura la colpa con previsione quando chi agisce si mostra concretamente indifferente rispetto all’eventualità della morte di qualcuno come conseguenza della sua azione, sperando tuttavia che questo evento non si realizzi ritenendolo evitabile o per abilità personale o per intervento di altri fattori. Si configura invece il dolo eventuale quando chi agisce si rappresenta, o potrebbe agevolmente rappresentarsi sulla base dei dati in suo possesso, due determinate conseguenze della sua condotta, entrambe però accettate e VOLUTE come probabili, come rischio della sua attività”. Una di questa due conseguenze, accettata e voluta, è la morte di qualcuno.
I casi di dolo eventuale respinti dalla Cassazione
Negli ultimi anni diversi pubblici ministeri hanno contestato l’omicidio volontario con dolo eventuale in alcuni casi che hanno particolarmente coinvolto l’opinione pubblica. Dall’omicidio di Marta Russo, la studentessa della Sapienza uccisa dall’assistente universitario Giovanni Scattone, a diversi incidenti stradali le cui modalità erano particolarmente “allarmanti”. Ad esempio il caso dell’automobilista che, sotto l’effetto di droghe, supera i limiti di velocità in città, passa col rosso e uccide due ragazzi in motorino. In tutte queste circostanze, nonostante in teoria il dolo eventuale ci stesse tutto, almeno sulla base dell’elaborazione che ne ha fatto la dottrina, la Cassazione ha smentito l’accusa, “limitandosi” a condannare i colpevoli per omicidio colposo aggravato dalla cosiddetta colpa cosciente, ossia dalla previsione dell’evento.
La sentenza Thyssen
Al processo per l’incendio della Thyssen i pubblici ministeri Raffaele Guariniello, Francesca Traverso e Laura Longo hanno chiesto sedici anni e mezzo per l’amministratore delegato Harald Espenhahn, accusato di omicidio volontario con dolo eventuale, 13 anni e 6 mesi per i dirigenti Gerald Priegnitz, Marco Pucci, Raffaele Salerno e Cosimo Cafueri, e 9 anni per Daniele Moroni, accusati, tutti, di omicidio e incendio colposi (con colpa cosciente) e omissione delle cautele antinfortunistiche. La decisione dei giudici ha accolto le richieste, e anzi ha aumentato a 10 anni la condanna per Moroni.
E siamo al punto debole: la tesi dell’accusa, recepita dalla sentenza, è che Espenhahn abbia deciso di posticipare i lavori per la messa in sicurezza delle linee di lavorazione dello stabilimento di Torino a una data successiva a quella gia’ prevista per la chiusura e il trasferimento a Terni dei macchinari, accettando così il rischio di incidenti o incendi mortali. Insomma, sulla base di quanto è possibile leggere nella giurisprudenza, affinché questa tesi dell’accusa e questa sentenza vengano confermate, deve essere PROVATO che l’unico a VOLERE, ad accettare volontariamente la conseguenza della morte di qualche operaio, sia stato l’amministratore delegato. Mentre i dirigenti, coloro che tutti i giorni sono a più stretto contatto con le conseguenze della scelta scellerata dell’amministratore delegato, questa eventualità non la VOLEVANO, ma si sono più “semplicemente” mostrati indifferenti rispetto a questa eventualità sperando invece che non si verificasse. Perciò rispondono di omicidio colposo aggravato e non di omicidio volontario sebbene con la formula del dolo eventuale.
Solo così si può spiegare e giustificare la diversa condanna tra amministratore delegato e dirigenti.
Una spiegazione destinata, senza dubbio, a suscitare perplessità in Cassazione.
L’obiettivo della condanna
La ragione per la quale è giusto condannare chi non rispettando le norme contro gli infortuni abbia provocato la morte degli operai, sta nel fatto che la condanna deve servire a punire in concreto l’imprenditore “cattivo”. Come dicevano gli antichi giuristi, le condanne devono essere giuste, non esemplari. E, aggiungiamo noi, devono servire allo scopo.
In questo senso, più che definire rivoluzionaria o epocale una condanna a 16 anni e mezzo per omicidio volontario, sono senz’altro più utili le cosiddette sanzioni accessorie, che pure sono state inflitte dai magistrati in nome della responsabilità amministrativa e societaria dell’azienda: una sanzione di un milione e mezzo di euro (che si aggiunge ai 12 milioni di euro già versati come risarcimento ai parenti delle vittime), il divieto di pubblicità per un anno, l’esclusione da contributi pubblici, agevolazioni e contributi e revoca di quelli già concessi.
L’obiettivo ultimo della condanna di un colpevole è da ricercare nella possibilità che ha la sentenza di soddisfare le giuste aspettative della collettività. In questo caso l’interesse collettivo è di evitare che un imprenditore che non rispetta le leggi e la tutela degli operai continui a trarre vantaggio dalla sua attività. Per raggiungere questo obiettivo non serve tenere l’imprenditore in galera per vent’anni durante i quali però le sue aziende continuano a prosperare e il suo patrimonio a crescere.
L’omicidio colposo aggravato
In ogni caso, basta leggere nel codice penale qualche pagina più avanti dopo l’articolo 575 che prevede le pene per l’omicidio: all’articolo 589, quello che riguarda l’omicidio colposo, c’è scritto: “nel caso di morte di più persone, ovvero di morte di una persona e di lesioni di più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni 12”.
Cosa significa? Vuol dire che siccome l’omicidio colposo è punito con la reclusione fino a 5 anni, nel caso della Thyssen i responsabili avrebbero potuto essere tutti condannati a 12 anni, aumentati di un terzo per l’aggravante della colpa cosciente.
Quindi tutti condannati a 16 anni, e non solo l’amministratore a 16 anni e mezzo per un reato diverso dagli altri.
In questo modo la sentenza sarebbe stata più solida, senza essere costretta a inerpicarsi per gli insidiosi sentieri del dolo eventuale. Distinguendo tra l’amministratore e i suoi collaboratori.
Certo, questo avrebbe reso più difficile coniare slogan.
L’effettiva tutela della sicurezza e il compito del legislatore
Per rendere effettiva, efficace, la sicurezza sul lavoro, e sanzionare altrettanto efficacemente chi non la rispetta, basterebbe che il legislatore prevedesse che nei casi di omicidio colposo provocato dal mancato rispetto delle norme antinfortuni, qualunque sia l’entità della pena l’impresa non può contrarre con la pubblica amministrazione per un certo numero di anni, non può ricevere sussidi o vantaggi fiscali, non può accedere a appalti superiori ad un determinato importo. E così via. Facendo attenzione (e qui si comprende la difficoltà del “mestiere” del legislatore e dunque sarebbe necessario scegliere bene i rappresentanti) a non rischiare però di gettare sul lastrico anche gli operai sopravvissuti, facendo chiudere l’azienda.
In pratica, il buon vecchio bilanciamento tra interessi meritevoli di tutela. Sembra facile, ma non lo è. E la soluzione non è esultare o fare caciara ad ogni occasione.