Formazione continua sì. Distorsione del mercato no.
Nelle ultime settimane la sentenza emessa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea è stato lo spunto per numerosi articoli di vario tenore, che andavano dalla semplice e corretta analisi della sentenza a voli pindarici su prese di posizione che i giudici dell’Alta Corte europea non hanno mai affermato e perorato.
La formazione continua, in medicina come negli altri ambiti professionali, è un dovere prima che un diritto e dovrebbe rientrare a buona ragione tra quanto un professionista coscienzioso ha messo in conto di dover affrontare nel momento stesso di iscrizione a un ordine. Un colpo di reni etico che dovrebbe fare la differenza tra l’essere un avvocato, un revisore dei conti, un giornalista o un architetto e il “fare” le attività ricadenti nell’ambito professionale.
Da Lussemburgo, infatti, nessuno è entrato nel merito della formazione. Le linee guida di interpretazione date dai giudici esaminano piuttosto la forma giuridica dell’Ordine e il rapporto tra le attività da esso messe in atto e il mercato verso il quale hanno effetto le decisioni prese in seno all’Ordine.
La specificità della pronuncia – Ai giudici europei, infatti, è stato chiesto di rispondere a domande precise e circostanziate da parte della giustizia portoghese, alla quale è stata ovviamente rimessa la decisione nel merito.
La seconda sezione della Cgue, sulla scorta dei documenti presentati, ha definito l’ordine professionale (nello specifico quello degli esperti contabili) come un’associazione di imprese e pertanto il regolamento da essa adottato non può essere escluso dall’ambito di applicazione dell’articolo 101 del trattato di funzionamento dell’Unione europea (TFUE).
La concorrenza, anche a tutela degli operatori esteri ricadenti nell’area Schengen, è il perno attorno al quale lavora tutto l’esame della Corte.
La limitazione imposta dal regolamento emanato dall’Otoc nei confronti dei corsi di formazione professionale effettuati da terzi integra infatti un restringimento del mercato che valica i confini nazionali e rende ostico per un soggetto esterno accreditarsi per fornire un servizio di cui l’ordine è insieme parte attiva e controllore.
I punti controversi del regolamento – Con la dichiarata intenzione di mantenere alto il livello qualitativo dell’offerta nel campo dell’aggiornamento professionale, l’ordine aveva previsto nel Regolamento portato all’attenzione della Corte un doppio binario formativo per il conseguimento dei 35 crediti formativi biennali: da una parte la formazione istituzionale di esclusivo appannaggio dell’ordine, dall’altra quella professionale, aperta anche ad altri operatori. Che però erano obbligati a preparare corsi di durata superiore alle 16 ore, fare domanda allo stesso Otoc per l’accreditamento e aspettare la relativa decisione, oltre a versare una tassa il cui importo non era stato inserito nel Regolamento.
Per questo i giudici hanno considerato il regolamento “idoneo” ad ostacolare gli scambi tra gli Stati membri e hanno sostenuto la tesi per cui un regolamento che pone in essere un sistema di formazione obbligatoria per garantire la qualità del servizio offerto, adottato da un ordine professionale, configura una restrizione della concorrenza vietata dall’articolo 101 TFUE quando elimina la concorrenza per una parte sostanziale del mercato rilevante a vantaggio dello stesso ordine e impone, per la parte restante del mercato, condizioni discriminatorie a danno dei concorrenti.
Non è pertanto la formazione obbligatoria ad essere vietata quanto l’impossibilità di aprire a soggetti esterni all’ordine una formazione erogata secondo propri modelli di business.
È il mercato, bellezza: l’accessibilità deve essere garantita sempre e comunque.
Corte di Giustizia, seconda sezione, causa C 1-12, sentenza del 28 febbraio 2013