Mettere limiti agli orari di apertura degli esercizi commerciali non è una prerogativa lasciata alle Regioni. Due sentenze della Corte Costituzionale, a distanza di due mesi l’una dall’altra, ribadiscono un concetto su cui in più occasioni c’è stato da “discutere”. Casi di piccola entità hanno più volte riportato i giudici delle Leggi a ragionare sull’attribuzione delle competenze in base all’articolo 117 della Carta fondamentale dello Stato.
La Corte Costituzionale, con la sentenza del 18 dicembre 2012 n. 299 (vedi il testo negli allegati), aveva già dichiarato «non fondate le questioni di legittimità costituzionale» relative alla deregulation degli orari e aperture inserite nel decreto “salva Italia”, sollevate da Piemonte, Veneto, Sicilia, Lazio, Lombardia Sardegna, Toscana e Friuli Venezia Giulia.
Di tenore simile la decisione dell’8 ottobre 2010 n. 288 (vedi il testo negli allegati) con oggetto la legge della regione Lombardia. La contestazione da parte di una società privata riguardava la presunta illegittimità costituzionale del testo regionale che aveva modificato la legge dello Stato pur non avendone competenza, a detta della ricorrente, in quanto disciplina della concorrenza e non del commercio.
In quel caso la Corte si era espressa dicendo che la materia degli orari appartiene alla competenza esclusiva delle regioni ma quelle stesse competenze regionali non possono non rispettare i contenuti minimi delle norme statali che disciplinano il mercato (articoli 11-13 del Dlgs 114/98) e possono solo aumentare la concorrenza, mai ridurla.
L’ultima pronuncia – Seguendo la stessa linea interpretativa, la Corte Costituzionale ha pronunciato la sentenza n. 27/2013 (vedi il testo negli allegati) relativa all’impugnazione del Presidente del Consiglio dei ministri degli articoli 88 e 89 della legge finanziaria 2012 emanata dalla regione Toscana: le Regioni non possono applicare nuovi limiti agli orari dei negozi al dettaglio e di quelli che vendono alimenti e bevande, non possono imporre nuovamente l’obbligo di chiusura domenicale e festiva.
Preminente la normativa statale su quelle regionali, pur così differenziate. Prevale il criterio della libera concorrenza tra le attività commerciali anche in relazione ai principi di liberalizzazione introdotti dall’Unione europea che il “Salva Italia” ha recepito.
Dalla teoria alla pratica – Certamente corretta dal punto di vista legislativo, la linea della Consulta è stata aspramente contestata anche dalle associazioni dei piccoli commercianti. Il presupposto per cui il consumatore ha diritto di scegliere presso quale negozio fornirsi nei suoi tempi di libertà è condivisibile ma probabilmente non tiene conto delle dimensioni spesso familiari di alcuni esercizi commerciali, soprattutto nei centri storici, in cui organizzare dei turni di riposo vuol dire rinunciare ad avere degli spazi condivisi di vita personale.
La libertà di tenere aperto un negozio sempre e comunque si scontra con la realtà di chi in quei negozi ci lavora e da cui trae fonte di reddito. Non si tratta di crociate ma di giusta valutazione del tessuto commerciale italiano, composto da persone con gli stessi diritti di chi guadagna in altri settori.
Senza contare che il via libera della Corte spesso si rivela un vero e proprio flop, così come è stato lo scorso Natale nella zona del tridente romano, da sempre meta dello shopping cittadino. Se alzare la saracinesca costa più di un giorno di “vacanza”, gli unici a voler spingere in questa direzione saranno i centri commerciali con all’interno grosse catene di negozi in grado di far fronte alla turnazione e alle spese maggiorate del personale.