Da oggi, dell’arancia, non si butterà via più nulla. Neanche le bucce perché serviranno per confezionare vestiti che per giunta rilasceranno oli essenziali sulla pelle. Si tratta di “Orange fiber” ed è l’idea della trentacinquenne siciliana Adriana Santanocito, diplomata all’accademia di moda di Milano, che osservando i quintali di bucce di arancia mandati al macero ogni anno nella sua regione, ne ha intuito un possibile ri-utilizzo decisamente insolito. Estrarne la cellulosa, la fibra naturale che si trova in tutte le piante (quella stessa che, se estratta dagli alberi, per capirci, permette di ricavare la carta) e… filarla così da ottenere dei tessuti.

«L’idea mi è venuta lavorando alla mia tesi – ci racconta la Santanocito – che aveva come oggetto proprio i nuovi materiali tessili per la moda. Ragionandoci ho pensato che si poteva creare un nuovo tessuto partendo da un problema che in Sicilia è considerato uno dei problemi più seri di tutto il distretto agricolo: lo smaltimento degli scarti della lavorazione delle arance, il cosiddetto pastaccio. Oggi rappresenta un costo molto elevato per le aziende, talmente tanto da far perdere loro competitività sul mercato. Così ho pensato ad un modo per poterlo riutilizzare ipotizzando che potesse essere impiegato per realizzare dei tessuti». Un’idea coraggiosa, senza dubbio, tanto più se si considera che la Santanocito non è né una scienziata né una ricercatrice universitaria. Eppure è riuscita a stuzzicare la curiosità di una professoressa del politecnico di Milano, Elena Vismara, professore associato di Fondamenti di chimica e coordinatrice di un laboratorio di ricerca che si occupa proprio di progetti simili, che ha creduto al progetto a tal punto da finanziarlo personalmente. Così, dopo avere “inglobato” la giovane designer nel proprio laboratorio con un contratto da stagista, due anni fa ha fatto partire la ricerca che nel giro di pochi mesi ha portato al brevetto.

Vestiti con le arance
«L’obiettivo adesso – spiega la professoressa Vismara – è quello di aumentare i volumi di produzione dal momento che occorrono molti quantitativi di bucce d’arancia, per realizzare un tessuto. A titolo esemplificativo, si pensi ad una gonna. Per realizzarla servirebbe la buccia di circa 200 arance. Per questo abbiamo preso in considerazione anche la possibilità di mescolare il tessuto derivato dalle arance con altri tipi di tessuti».
La Santanocito, che per la sua idea ha ricevuto tantissimi premi tra cui quello Expo 2015 e che andrà a rappresentare l’italia alla Business cup competition di novembre a Copenaghen, sta per mettere in piedi un’azienda con la socia Enrica Arena esperta di comunicazione e cooperazione internazionale.
«Abbiamo già ottenuto l’interessamento di parecchie aziende della moda – continua la Santanocito – anche grazie al tutoraggio della camera della moda di Milano. Ci servono 150mila euro per potere partire ma contiamo di poterlo fare già dai primi del 2014».

Dal siero del latte alla bioplastica
Il filone della green economy che va alla scoperta, o meglio alla riscoperta di nuovi materiali eco sostenibili, è molto vasto.
Basta fare un giro per le università ed i centri di ricerca della penisola per scoprire quante cose si possono fare con i materiali che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni e che molto spesso sono destinati alla spazzatura. Idee innovative che ci fanno rendere conto di quante risorse, fino ad oggi abbiamo sprecato per il semplice fatto di non sapere come riutilizzarle.
Al politecnico di Torino, ad esempio, sono riusciti a produrre dei film (la pellicola trasparente, per intendersi) totalmente biodegradabili ottenendoli dalle proteine del siero del latte che normalmente è uno scarto di produzione e come tale va smaltito. Si tratta di un progetto di ricerca molto vasto che coinvolge, oltre all’ateneo torinese, anche il consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura, che coordina la squadra, e l’istituzione Legacoop agroalimentare.
«Nel nostro laboratorio – precisa Francesca Bosco, ricercatrice e responsabile dell’unità operativa del progetto dentro il politecnico di Torino – introduciamo dei batteri nel siero del latte. Questi batteri riescono a trasformare il lattosio in bio-plastiche e lo e trattengono dentro di sé, in pratica si gonfiano di modo che non dobbiamo fare altro che estrarlo una volta prodotto. Abbiamo già avviato lo scale-up, ossia una produzione su vasta scala all’interno dell’azienda di legacoop nel cuneese.

I noccioli delle olive per l’edilizia
L’italico ingegno non ha confini. Un geometra di Polistena, in provincia di Reggio Calabria, Domenico Cristofaro, ha ideato un modo per riutilizzare gli scarti della produzione delle olive che miscelati con gli scarti industriali derivati, ad esempio, dalla produzione dei pannolini oppure dei vasetti dello yogurt. Si chiama Ecomat, ed è un materiale edile di nuovissima generazione, dei pannelli che hanno già ricevuto moltissimi riconoscimenti tra cui il premio Fondazione Spadolini e quello per lo sviluppo sostenibile del presidente della Repubblica.
«La zona dove vivo – ci spiega Cristofaro che su questo progetto ha fondato la Ecoplan srl di cui è presidente e amministratore delegato –, la piana di Gioia Tauro, è ricca di ulivi la cui produzione e commercializzazione produce ogni anno, 250 mila tonnellate di scarti ossia sansa esausta di noccioli di olive. Io ho miscelato questa fibra vegetale agli scarti della produzione industriale per ottenere questi pannelli in plastica che oltre ad avere l’estetica del legno sono praticamente indistruttibili».


Celle fotovoltaiche a base di… fichi

All’università di Catania, invece, un giovane studioso, Stefano La Malfa, ricercatore universitario di arboricoltura generale e coltivazioni arboree presso il dipartimento di scienze delle produzioni agrarie e alimentari, sta sperimentando nel suo laboratorio delle celle fotovoltaiche di ultima generazione a base di pigmenti naturali derivati dai fichi d’india, dalle arance rosse o anche dalle melanzane.
«Questi pigmenti – spiega il professore La Malfa che per questo progetto collabora con il cnr di Messina e con un’azienda – sono foto attivi, ossia sono capaci di catturare la luce. Applicandoli alle celle fotovoltaiche riusciamo a trasformare in elettricità la luce così catturata. I pannelli tradizionali, attualmente sono a base di silicio. Applicando i pigmenti naturali si potranno ottenere dei vantaggi dal momento che non sono tossici e inoltre sono riciclabili. Prevediamo di arrivare a prototipo nel 2014».

Lettiere dei gatti a servizio del manifatturiero

Al Politecnico di Torino, invece, il professore Jean Marc Tulliani ha ideato un sensore di umidità (utilizzato prevalentemente nell’industria manifatturiera laddove deve essere costantemente monitorato lo stato del prodotto) che ricava dalle lettiere per gatti. Avete capito bene, proprio le lettiere per gatti quelle che tutti abbiamo in casa!
«Il vantaggio di questo sensore di umidità – spiega il professore Tulliani – che è rappresentato da una specie di scatoletta molto simile ad un micro chip – è che può resistere ad altissime temperature e anche in ambienti corrosivi come ad esempio all’interno di fabbriche che producono laterizi. In questo senso possono trovare applicazione nella fase dell’essiccatura ed essere competitivi rispetto ai tradizionale sensori. Il progetto è ancora in fase di sviluppo che terminerà nel 2015 ma abbiamo già trovato un azienda, la Ceam di Empoli che si è interessata per l’industrializzazione del prodotto».


A proposito di packaging

Ma i nostri scienziati sono andati a pescare nella natura anche per ricavare, facendo altri esempi, dei principi attivi usati nella produzione di cosmetici o di alimenti (come nel caso del progetto di Phenbiox srl, lo spin-off universitario guidato dal chimico Alessandro Filippini, ricercatore all’università di Bologna) o ancora puntando sul packaging “bio” ricavato, ad esempio, da amido di mais e da nano fibre di cellulosa miscelati per realizzare i cosiddetti materiali barriera ossia quelle confezioni che proteggono i prodotti dall’umidità e non fanno disperdere gli aromi. Come quelle sigillate he contengono le patatine, per capirci.
In quest’ultimo caso si tratta di un mega-progetto dell’università di Bologna articolato su tre filoni. «Uno di questi si chiama Sustainpack – precisa il coordinatore, Marco Giacinti Baschetti, ricercatore in ingegneria chimica presso l’università di Bologna – ed è stato il più grande progetto di ricerca sul packaging, ossia l’imballaggio, intrapreso fino ad oggi con la partecipazione di ben 35 partner di 13 paesi europei ed un budget totale di 36 milioni di Euro, 19 dei quali finanziati dall’unione europea. Lo scopo di Sustainpack era quello di rafforzare la posizione dell’imballaggio di origine cellulosica, cosiddetto fiber based, sul mercato aumentandone le proprietà ed il valore aggiunto tramite l’utilizzo di soluzioni nanotecnologiche».

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