Artista, architetto, autore del disegno a “nido d’uccello” dello stadio olimpico di Pechino, noto per le sue posizioni critiche nei confronti del partito comunista, Ai Weiwei è stato arrestato l’anno scorso – ed è tuttora agli arresti domiciliari nella sua casa alla periferia di Pechino – mentre si apprestava a partire per Londra in occasione dell’inaugurazione di Sunflowers seeds la sua grande installazione sul pavimento del Turbin Hall della Tate Modern, costituita da un’immensa distesa di quindici milioni di semi di girasole di porcellana fatti a mano dagli abitanti di un intero villaggio in Cina.
La Lisson Gallery di Milano gli ha dedicato una mostra conclusa pochi giorni fa. Il percorso è stato scandito da opere in ceramica realizzate nel 2006, come la serie Watermelons e la Oil Spill che replica pozzanghere di petrolio greggio distese sul pavimento della galleria, o ancora Pillar, la scultura interamente in porcellana che si distingue per i suoi 2,3 metri di altezza.
Ai Weiwei non è che uno dei milioni di dissidenti e attivisti per i diritti umani arrestati perché contrari all’ideologia comunista. Tra questi “controrivoluzionari di destra” figura anche il Premio Nobel per la Pace 2010 Liu Xiaobo a cui il governo cinese non permise neanche di partecipare alla cerimonia di premiazione tenuta a Oslo.
Artisti e premi Nobel
Liu Xiaobo rappresenta il simbolo della repressione messa in atto dal governo cinese nei confronti di tutti coloro le cui fondamentali libertà di opinione, espressione e informazione sono costantemente minacciate dalle autorità, ed è per questo che, in occasione dell’evento “L’Arte contro la censura in Cina”, tenutosi lo scorso 17 aprile presso la galleria nazionale “Jeu de Paume” di Parigi le associazioni per i diritti umani in collaborazione con Amnesty International hanno ribadito il loro appello al governo per il suo rilascio e hanno inoltre riaffermato il loro supporto alla moglie, Liu Xia, che attualmente vive agli arresti domiciliari a Pechino, permanentemente sorvegliata dalla polizia e impossibilitata ad avere contatti con il mondo esterno e a pubblicare i suoi lavori.
Attraverso un processo farsa, tipico dei regimi, Liu Xiaobo è stato condannato a 11 anni di carcere con l’accusa di “incitamento alla sovversione del potere di Stato” in quanto principale organizzatore della Charta 08 (in allegato), manifesto con il quale si chiedeva il rilascio di tutti i prigionieri e l’instaurazione di una vera democrazia cinese nel rispetto di tutti i diritti umani.
Ispirata alla Charta 77, redatta negli anni Settanta dai dissidenti cecoslovacchi, la Charta 08 fu firmata da oltre 300 scrittori, avvocati e attivisti aventi tutti un unico obiettivo: trasformare la Cina al fine di creare “uno stato costituzionale libero e democratico”. Oggi Liu Xiaobo è detenuto nel Laogai “Jinzhou Prison”, nella provincia nord-orientale del Liaoning, dove è costretto a vivere e a lavorare per produrre materiale elettrico, un Laogai dunque che ha come operaio un Premio Nobel per la Pace.
Laogai, i nuovi campi di concentramento
I Laogai -abbreviazione di laodong gaizao “riforma attraverso il lavoro”- sono campi di concentramento istituiti da Mao Zedong nel 1950 sull’esempio dell’URSS dove erano in piena funzione i Gulag ma mentre questi ultimi sono in disuso dagli anni ’90, i Laogai in Cina sono tuttora operanti e se ne contano più di mille (indicati dai puntini bianchi nella mappa che segue).
All’interno dei Laogai uomini, donne e bambini sono costretti ai lavori forzati in condizioni disumane a vantaggio economico del Governo cinese e di numerose multinazionali che producono o investono in Cina. Essi sono strettamente funzionali allo stato totalitario cinese in quanto perpetuano la macchina dell’intimidazione e del terrore attraverso il lavaggio del cervello del detenuto attuato mediante l’indottrinamento politico quotidiano sulle verità infallibili del comunismo e mediante l’autocritica e in aggiunta forniscono un’inesauribile forza lavoro a costo zero. L’indottrinamento politico si effettua con “sessioni di studio” giornaliere che hanno luogo dopo le lunghe e dure ore di lavoro forzato; l’autocritica ha invece luogo davanti ai sorveglianti e agli altri detenuti ed è finalizzata a “riformare” la personalità di chi si auto-accusa. Innanzitutto si devono elencare e analizzare le proprie colpe, ovvero si è obbligati a confessare un crimine ipotetico perché, come sempre accade nei regimi comunisti, non basta essere arrestati come nemici, traditori o dissidenti, bisogna costruirsi la propria colpa, bisogna confessare e accusarsi pubblicamente di averla commessa, procedendo così alla riforma della propria personalità, per diventare una “nuova persona socialista”. Le condizioni di vita dei Laogai sono terribili, si lavora più di 16 ore al giorno, secondo il tipo di attività praticata, industria, campi o miniere; sicurezza e igiene non esistono, si dorme su un letto di pietra non più largo di 60 cm, il cibo è inadeguato e sempre somministrato in proporzione al lavoro eseguito, si mangia principalmente sorgo, un cereale dato agli animali, può ritenersi fortunato chi lavora nei campi perché può trovare animali o chicchi di soia per sfamarsi. I pestaggi e le torture sono all’ordine del giorno e le punizioni includono anche l’isolamento forzato quasi sempre senza cibo, in cellette di circa due-tre metri cubi, in compagnia dei propri escrementi. Si muore principalmente di malattia ma non stupisce che un tale clima di continue vessazioni e abusi induca molti detenuti al suicidio. Ipoteticamente si potrebbe anche scappare da questa “cittadella”, se non fosse che i chilometri che separano i Laogai dai centri abitati sono tanti e ammesso di avere le energie per fuggire, data la quantità di cibo così razionato per non dire inesistente, c’è il rischio di essere scoperti privi di documenti e di essere rimandati nel Laogai.
Nel Laogai si sopravvive sperando di poter uscire, a meno che non si sia stati condannati a morte. Spesso avviene che i prigionieri arrivino al termine della loro pena e pensino di poter tornare liberi invece apprendono che si, sono liberi, ma liberi di lavorare dentro il Laogai.
Il motivo per cui questo sistema funziona così tanto è che all’interno dei Laogai si producono oggetti di ogni genere dai giocattoli, alle scarpe, ai computer, ai prodotti tessili e agricoli, un mercato dunque, che nascendo da una forza lavoro a costo zero è in continua crescita e diventa di fondamentale importanza per conquistare i mercati stranieri. In realtà la legge cinese non permetterebbe l’esportazione di questi prodotti che sarebbero destinati al solo mercato interno ma questo è molto esiguo per cui attraverso una serie di passaggi intermedi è possibile esportarli. Ogni Laogai ha infatti due nomi, uno come struttura repressiva e uno come impresa commerciale, in genere sulla facciata non appare il nome della prigione, ma solo quello dell’impresa. Appare chiaro dunque come il Pcc rappresenti il miglior partner commerciale per qualsiasi impresa nazionale o multinazionale, cinese o straniera, il cui solo scopo sia l’alto profitto, senza scrupoli. Non è un caso che il costo del lavoro in Cina sia il 5% del costo del lavoro nell’Ue.
Il potere immenso che ha la Cina, la capacità che ha questo Paese di aver comprato il debito americano rende complicato credere a tutto questo, rende difficile credere che in realtà l’80% della sua popolazione sia sfruttata nelle campagne, in fabbriche-lagher e nei laogai e che la tanto decantata “competitività cinese” sia principalmente il risultato dello sfruttamento umano. Denunciare tutto questo è doveroso ed è per questo che mantenere legami con la dissidenza, con coloro che nei Laogai hanno vissuto e sono sopravvissuti e dunque possono raccontarne gli orrori diviene fondamentale per tentare di ripristinare il valore essenziale di individualismo e pensiero indipendente.