Dopo settimane di tensione, con un Parlamento tenuto in ostaggio dal rifiuto di ogni accordo da parte della minoranza liberal oltranzista del Tea Party, il Senato statunitense ha finalmente approvato un’estensione del tetto massimo del debito pubblico, il cosiddetto “assegno in bianco” cui sono spesso ricorsi i presidenti americani. Operazione necessaria e urgentissima: dal 2 agosto, il Tesoro non sarebbe stato più in grado di soddisfare né le proprie obbligazioni né le pensioni e gli stipendi pubblici.
Gli Usa sono dunque usciti dal pericolo di default, ma il cammino per la ripresa economica è ancora lungo. Il deficit va assolutamente ridimensionato ed è già pronto un piano di tagli, che va a colpire proprio le riforme sanitarie volute dal Presidente Barack Obama. Ma gli Stati Uniti non sono i soli: due anni dopo la crisi del 2009, il mondo ancora fatica a riprendersi. L’amministrazione Obama ha proposto un nuovo sistema di regolamentazione dei mercati finanziari, il cosiddetto Dodd-Frank Act, che dovrebbe prevenire la ciclicità delle crisi finanziarie; ma, ad un anno dalla sua approvazione, molte misure sono state ridimensionate.
Il 23 luglio 2010, veniva finalmente approvato negli Stati Uniti il Dodd-Frank Act, dal nome dei due ideatori, una riforma finanziaria di risposta al cataclisma economico del 2009. Come aveva dichiarato il presidente Barack Obama nella sessione del G20 di Toronto di giugno 2010, «le misure introdotte sono le più drastiche della storia degli Stati Uniti, da quelle varate in seguito alla Grande Depressione del 1929». L’obiettivo della legge è quello di evitare una prossima crisi, ma, spiega il Wall Street Journal, i tempi per l’attuazione delle nuove disposizioni si sono di molto allungati rispetto alla tabella di marcia prevista. Fino ad ora, meno della metà dei 387 articoli è stata formalmente implementata in nuovi regolamenti ( l’applicazione richiederebbe la definizione di 67 studi e 243 nuove norme ). Ottimisticamente, il testo di legge sarà valido a tutti gli effetti a partire dal 2015. E via via che passano i mesi, si accentua la sua natura – come sostiene Forbes – di “legge bizantina”. I repubblicani hanno fatto muro compatto contro la riforma, giudicata eccessiva nella sua intromissione nel mercato finanziario, e anche la maggioranza democratica si è sfaldata più volte durante il percorso parlamentare. In Congresso si continua a discutere dell’entità del budget disponibile per le autorità federali di controllo e vengono continuamente proposte leggi abrogative di singoli aspetti della riforma. La legge infatti interessa quasi ogni aspetto del settore finanziario nazionale e va a intaccare in varia misura i privilegi di tutti i suoi attori, proprio mentre le maggiori banche Usa stanno pagando risarcimenti miliardari ai propri investitori. Non ha certamente disteso il clima, poi, la recente proposta dell’agenzia di rating Moody’s di abbassare le valutazioni di alcune banche, visto che – in circostanze critiche – il governo non sarebbe più intervenuto in loro soccorso. Nonostante tutto, la riforma lascia anche irrisolti molti problemi: primo fra tutti la regolamentazione dei contratti derivati Over the Counter, quelli colpevoli della bolla speculativa scoppiata nel 2009.
Una nuova autorità federale per proteggere i risparmiatori dalle frodi aziendali
Il Dodd-Frank Act ha innanzitutto ridotto a venti i numerosi e contraddittori organi istituzionali di controllo che nel 2009 non erano riusciti a prevenire né la crisi né la sua deriva. Due nuove autorità federali ( Consumer Financial Protection Bureau e Financial Stability Oversight Council ) assumono gran parte delle funzioni necessarie. Il CFPB è stato istituito per proteggere i risparmiatori dalle frodi aziendali delle banche e delle compagnie di assicurazioni; punisce in questo senso la diffusione di informazioni fuorvianti sui prodotti finanziari. Al FSOC spetta invece il compito di monitoraggio e valutazione della stabilità del sistema finanziario. Vigila sulle acquisizioni dei gruppi bancari, per evitarne un sovradimensionamento, e segue l’operato anche dei gruppi non bancari (per esempio del settore assicurativo). Per il resto, è potenziato il ruolo di altre authority come la Security Exchange Commission (sorta di Consob statunitense) e la Federal Reserve System (la banca centrale indipendente del governo Usa), cui è assegnata la gestione straordinaria degli istituti assicurativi che rischiano il fallimento. L’agenzia governativa Federal Deposit Insurance Corp, nata per fornire una copertura assicurativa ai depositi degli istituti di credito, di rilevanza marginale fino ad oggi, è stata insignita di ampi poteri d’amministrazione nei confronti degli istituti bancari vicini al fallimento. In chiusura di mandato la commissione presieduta da Sheila Bair ha approvato all’unanimità una norma riguardante la responsabilità dei dirigenti, che certo farà discutere: d’ora in poi la Fdic potrà chiedere ai dirigenti riconosciuti colpevoli la restituzione, come indennizzo, di una somma pari a circa due anni di stipendi. Obama non ha mai visto con simpatia i privilegi della classe manageriale, tant’è che nel 2009 aveva dichiarato «Se le banche sono abbastanza sane per pagare maxi bonus ai propri top managers, allora lo sono anche abbastanza per risarcire i contribuenti. Vogliamo indietro il nostro denaro e ce lo riprenderemo». La commissione deve invece ancora discutere le modalità dei “living wills”, i piani con cui ogni istituto dovrà stabilire in anticipo come dismettere le proprie attività, nel modo più rapido possibile e al minor costo umano.
Le responsabilità (e gli interessi) delle agenzie di rating
Le agenzie di rating, che analizzano la solidità finanziaria di Stati, enti, imprese, banche, società d’assicurazioni, sono state fortemente responsabilizzate; eccessivamente, secondo l’opinione del partito repubblicano, che ha proposto un testo di legge alternativo. In più, per evitare situazioni di conflitto d’interesse, verranno sottoposte ai controlli della Sec. Intanto, in Europa, dove le agenzie di rating sono sotto accusa per gli errori di valutazione sulla crisi greca, si discute di una possibile nazionalizzazione del servizio (come in Cina). Le principali agenzie sono però tutte statunitensi (Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch).
Trasparenza su bilanci e stipendi
Così anche le stesse imprese: sono stati disposti incentivi per il personale alla denuncia di frodi, l’obbligo alla pubblicazione dei bilanci e della media annuale degli stipendi al personale e il loro rapporto con le retribuzioni corrisposte ai dirigenti (disposizione che i repubblicani stanno cercando di emendare). Nelle imprese esistono già dei meccanismi di controllo interno contro i comportamenti illeciti dei singoli; a questi verrà ad accostarsi, come alternativa, la denuncia alla Sec. Il dipendente potrà decidere se rivolgersi direttamente alla Sec, che ha deciso di estendere la protezione testimoni a tutti coloro che forniranno informazioni, sia pure in ultima analisi non incisive, oppure se seguire il protocollo aziendale di verifica interna e, se vuole usufruire di protezione e ricompensa, inoltrare le informazioni alla Sec in un secondo momento, purché entro 120 giorni. Come premio, il dipendente riceverà una somma pari al 10-30% della multa raccolta dal Governo, se questa supera il milione di dollari. La Sec non ha escluso il caso che sia l’azienda stessa a dare comunicazione dell’illecito; in questo caso, il dipendente che ha fatto partire la segnalazione avrà comunque diritto alla sua ricompensa.
Oltre che sull’evidentemente discutibile idea di utilizzare denaro pubblico per premiare una “delazione” (spesa che è in un certo senso compensata da un risparmio sui costi d’investigazione), il dibattito si è accentrato molto sulle controindicazioni della riforma: il proliferare di interventi esterni comporterebbero costi ingenti per l’azienda, costituiti da una “distrazione” dall’attività principale e dallo svilimento dei meccanismi di controllo interno. A monte c’è però il problema dell’illecito: secondo il presidente della Sec, Mary Shapiro, la riforma avrà l’effetto aggiuntivo di rilanciare una sana cultura della compliance all’interno delle imprese perché solo in quegli ambienti dove i dipendenti si sentiranno tranquilli di denunciare le frodi, le aziende vedranno ben funzionare le loro funzioni di controllo interno. Mancano però indicazioni legislative volte a una piena tutela del dipendente, come il diritto alla riservatezza e al mantenimento dell’incarico.
Controlli anche sui pagamenti fiscali all’estero
Rispetto al mercato internazionale, le aziende devono dar pubblico conto dei pagamenti fiscali versati ai governi esteri e devono comunicare alla Sec qual è la provenienza delle importazioni minerali, norma introdotta per debellare il finanziamento indiretto ai conflitti armati.
Soprattutto, la legge regola in senso restrittivo il comportamento delle banche, pur senza riproporre – come auspicato dai più prudenti – il Glass-Steagall Act dell’epoca Roosevelt, che distingueva chiaramente le banche di investimento da quelle di credito commerciale (che raccolgono i risparmi dei cittadini), proibendo alle seconde di operare con capitali altrui sui mercati speculativi ad alto rischio. Il principio è quello di sconfessare la logica del too big to fall ed evitare ulteriori salvataggi multimiliardari a spese dei contribuenti. Il Dodd-Frank Act, oltretutto, pone rimedio ad una lacuna nel sistema finanziario statunitense, che fino ad ora ha permesso alle banche straniere di basarsi sulla legislazione del loro Paese di provenienza.
Il Volker rule, che prende il nome da Paul Volker, ex presidente della Fed e attuale consigliere di Obama, proibisce alle banche il proprietary trading (l’acquisto di strumenti finanziari, i cui profitti restano alla banca) per operazioni ad alto rischio. Le banche hanno già trovato il modo di aggirare questo divieto, facendo in modo che simili operazioni siano mosse come su commissione, dalla domanda di clienti. Per quanto riguarda l’acquisizione di hedge fund o fondi speculativi in non proprietary, non è stato opposto un divieto totale: alle banche è ancora concesso di usare fino al 3% del loro capitale per investire in hedge fund ad alto rischio. Piuttosto risulta sottoposta a maggiori controlli, tramite l’obbligo di registrazione dei titoli negoziati presso la Sec.
Più rigore meno profitti per le banche
Le nuove regole di controllo del capitale e della liquidità, con l’introduzione di tetti minimi da raggiungere entro il 2013, hanno provocato uno scontento generale. Tali disposizioni, cautelative per il risparmiatore, portano a un ovvio rischio di detrimento dei profitti, tant’è che sono state disposte per le banche “di importanza sistemica”, con più di 50 miliardi di dollari di asset. Questa linea di demarcazione tra piccola e grande dimensione è assai miope: equipara multinazionali come la JPMorgan Chase che ha oltre 2 mila miliardi di asset, 200 mila dipendenti e filiali in più di 60 Paesi, a banche minori che nessuno si preoccuperebbe di salvare dal fallimento come la Zions Bancorp, che ha 500 filiali in dieci Stati e 51 miliardi di dollari di asset. Se la Fed non farà subito chiarezza potrebbe insomma verificarsi una corsa alla dismissione di titoli o prestiti da parte di quelle banche che si trovano poco al di sopra della soglia indicata. Banche straniere come Barclays e Deutche Bank, per la prima volta sotto la legislazione statunitense, si sono trovate appunto in questa scomoda situazione, proprio mentre in Europa erano sottoposte agli stress test. Entrambe sono riuscite però ad evitare questo onere tramite opportune modificazioni allo statuto legale che le hanno poste fuori dalla condizione di holding bancarie.
Anche la Fed, secondo quanto disposto dallo stesso Dodd-Frank Act, ha ordinato una serie di stress test per le 19 più importanti banche del Paese, al fine di verificare la loro capacità di resistenza di fronte a un’eventuale recrudescenza della crisi. Il monitoraggio del sistema bancario ha preso in considerazione le performance dei prestiti, delle partecipazioni azionarie, dei ricavi e dei livelli di capitalizzazione, in funzione di tre possibili scenari economici (il peggiore di questi prevede un ipotetico calo del PIL americano pari all’1,5%, con un contemporaneo innalzamento di due punti rispetto a quello attuale del tasso di disoccupazione all’11%).
Il campo minato dei (floridi) mercati non regolamentati
Alle banche non è stato proibito di speculare sui contratti derivati. Gli Otc – Over the counter, ossia i mercati non regolamentati come il Nasdaq – danno possibilità di operare su grandi cifre con un piccolissimo capitale di partenza: ma comportano grandi rischi. Essendo contrattati in modo bilaterale, mancano di trasparenza sia per gli investitori sia per le Authority. Alla vigilia della crisi, gli Otc avevano raggiunto i 700 trilioni del valore nazionale e «una parte consistente di denaro pubblico – riporta il Dodd-Frank Act – è stata usata proprio per coprire i pagamenti alle controparti, in quanto le banche non avevano abbastanza capitali». La bolla si è subito riformata: a fine marzo 2010 valevano di nuovo 615 trilioni di dollari. Il settore degli Otc (stando all’ultimo rapporto della Banca dei regolamenti internazionali) ha raggiunto nuovamente il valore pre-crisi del 2008, 600 mila miliardi di dollari, cioè 12 volte il valore del Pil mondiale, ma attualmente risulta sottoposto a pochissimi controlli.
Il Dodd-Frank Act ammette la sottoscrizione di Otc, sia pure «soltanto» di quelli relativi a tassi di interesse e tassi di cambio. È un «soltanto» che negli Usa equivale oggi a ben oltre 200 trilioni di dollari. L’interesse del mondo bancario americano ad evitare qualsiasi regolamentazione sugli Otc è provato dai 23 miliardi di dollari di profitti ottenuti sui derivati, nel pieno della crisi, dalle maggiori banche commerciali. Infatti, la tiepida normativa doveva entrare in vigore il 21 luglio scorso, a un anno esatto dalla firma del Dodd-Frank Act; ma il CFBP ha reso noto che, per avere un quadro normativo completo, si dovrà aspettare fino al 31 dicembre.
Una crisi ancora irrisolta
Già in chiusura dell’anno scorso, il presidente della Fed, Ben Bernanke ammetteva il fallimento dell’exit strategy e annunciava il ritorno al crisis management, cioè alla mera gestione della crisi con strumenti monetari. Una prima soluzione per risollevare l’economia Usa è stata quella di tenere bassi i tassi di interesse e comprare bond (specialmente del Tesoro), il che ha significato produrre sempre nuova moneta e innescare una pericolosa spirale deflativa. Ora Obama vorrebbe attuare un piano congiunto di tagli alle spese e aumento delle tasse, che i repubblicani non sono disposti ad accettare. I democratici sono disposti a tagliare i fondi ai programmi Medicare e Medicaid, le due misure fortemente volute da Obama nell’ambito della riforma della sanità pubblica e altrettanto fortemente osteggiate dal partito conservatore, purché siano ridotti anche gli sgravi fiscali alle corporations e ai miliardari e il budget dell’apparato militare.
Al G20 di Toronto i governi partecipanti si erano impegnati a dimezzare i deficit pubblici entro il 2013.
In chiusura del 2009, quello nordamericano aveva segnato un record storico di 12.000 miliardi di dollari; a metà del 2011, si ha già superato prospetticamente il vecchio limite legale di 14.300 miliardi. L’aumento accordato ad Obama è di 2.400 miliardi di dollari, a patto di ridurre il deficit di mille miliardi di dollari in dieci anni. Operazione possibile solo decurtando pesantemente il budget della spesa pubblica, altrimenti tra un anno gli Stati Uniti si ritroveranno in default tecnico; ma i repubblicani hanno rifiutato ogni accordo sulla tassazione. A pronunciarsi entro novembre sarà la nuova commissione bipartisan del Congresso (sei democratici e sei repubblicani), incaricata di individuare altri piani di ridimensionamento del debito. Qualora la commissione fallisse, scatterebbero tagli automatici per 1.200 miliardi, la metà dal settore difesa e la restante parte dagli altri settori, come le pensioni e il sistema sanitario. L’intesa non ha convinto i mercati: Wall Street, dopo un balzo iniziale, ha chiuso negativa, così come i listini europei.
Le agenzie di rating statunitensi, la Fed e il governo cinese (il maggior creditore degli Stati Uniti) hanno evidenziato le “ondate di shock” che un fallimento del governo americano porterebbe all’economia mondiale.
Gli Stati Uniti garantiscono in buona parte la liquidità delle banche nazionali di tutto il mondo, che negli anni hanno accumulato bond Us e, proprio per questo, hanno incominciato nelle ultime settimane a svendere i titoli più deboli, come quelli del Tesoro italiano e spagnolo. Alla valutazione dell’economia nazionale, è legata anche la solidità di molte società: se non si prenderà una decisione d’insieme, si rischia la paralisi dei mercati a vantaggio di pochi “falchi”, capaci di scalare e liquidare le società messe in difficoltà dalla volatilità delle azioni che si è registrata in questi giorni.
Dodd-Frank Act
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