Si è concluso con la condanna all’ergastolo per nove separatisti saharawi e con pene detentive che vanno dai 2 ai 30 anni di carcere per gli altri 16 imputati il processo per le violenze commesse a Gdeim Izik, vicino Laayoune, avvenuti l’8 novembre del 2010. Si è trattato di un avvenimento completamente ignorato dai media europei che è stato invece per giorni sulle prime pagine dei giornali non solo del Marocco ma anche degli altri paesi del Nord Africa.
A questo processo, che si è svolto nel tribunale militare di Rabat, hanno partecipato decine di osservatori internazionali. Questo perché prima di entrare nel merito dell’innocenza o della colpevolezza degli imputati, il dibattito sui media della regione ruotava intorno alla legittimità o meno del tribunale stesso. Alla vigilia del processo la stampa algerina ha parlato infatti di un tentativo delle autorità marocchine di tenere le udienze in gran segreto, impedendo a chiunque di avvicinarsi o di assistere.
In realtà è avvenuto proprio il contrario, con udienze a porte aperte alle quali chiunque poteva assistere. Nel rapporto stilato dalla delegazione di quattro osservatori italiani che lo ha seguito si legge che hanno assistito a “giorni di processo trasparente e ben organizzato e, a nostro avviso, equilibrato. In primo luogo abbiamo osservato che gli imputati si sono presentati in totale libertà, potendo godere della libertà di parola e di espressione, pronunciando slogan politici e di propaganda tipica di un partito separatista come il Fronte Polisario. Indossavano inoltre vestiti tradizionali del Sahara e senza manette”.
Gli osservatori rilevano inoltre come gli imputati abbiano avuto molte opportunità di parlare direttamente al pubblico. Inoltre tutti – il personale civile internazionale, i militari, i giornalisti e gli osservatori internazionali – hanno avuto l’opportunità di assistere al processo nel tribunale militare, ascoltando il racconto dei fatti accaduti a Gdeim Izik grazie alla traduzione in quattro lingue diverse, ovvero arabo, inglese, francese e spagnolo. Per questo nel documento, si rileva che “questo sia indicativo di come ci sia stato un confronto chiaro e paritario tra il pubblico ministero e la difesa. Ovviamente, il pubblico ministero ha mostrato video, fotografie, testimonianze per dimostrare la colpevolezza dei 24 accusati. In secondo luogo, il presidente della giuria, un giudice civile, ha concesso il giusto tempo alle parti per presentare le loro argomentazioni. Inoltre è stato assicurato agli avvocati della difesa il diritto di parlare, esponendo la loro tesi, in particolare per quanto riguarda l’innocenza degli imputati”.
Un regolare processo
Gli osservatori ricordano infine come “al di fuori del tribunale la polizia abbia permesso a tutti di esprimere il proprio punto di vista e ai familiari delle vittime di manifestare anche in totale libertà. Riteniamo inoltre che non si sia trattato di un processo politico in quanto i rappresentanti politici e istituzionali hanno partecipato a titolo personale solo stando all’esterno del tribunale e mostrando per esempio la loro solidarietà alle famiglie degli agenti di polizia uccisi. Attraverso questo processo il Marocco, invitando le associazioni e gli osservatori internazionali per i diritti umani, giornalisti, ha voluto dimostrare la sua buona fede e che i diritti umani sono rispettati e garantiti nel Paese”.
Secondo il segretario generale del Partito del progresso e socialismo marocchino e ministro dell’Edilizia, Nabil Benabdallah, “gli imputati sono alla sbarra per aver sfruttato una protesta sorta due anni fa vicino Laayoune, per questioni di carattere sociale ed economico, per compiere dei crimini efferati. Hanno strumentalizzato la protesta pacifica di parte della popolazione per tenere in ostaggio i manifestanti ed attaccare le forze dell’ordine con spranghe e coltelli”. Parlando fuori dal tribunale militare di Rabat il ministro marocchino, che è stato in passato anche ambasciatore del suo Paese a Roma, ha spiegato di “essere venuto qui’ non come politico ma a titolo personale insieme ad altri dirigenti del mio partito e membri del governo prima di tutto per portare la nostra solidarietà alle famiglie delle vittime di quegli incidenti. Sono loro infatti a pagare il prezzo più caro delle violenze avvenute quel giorno. Riteniamo che la politica debba rimanere al di fuori di questo processo perché la magistratura in Marocco è indipendente e questo processo, come hanno potuto appurare le decine di osservatori internazionali venuti da tutto il mondo, è trasparente e al tempo stesso veloce”.
Delitti efferati
Il Tribunale militare di Rabat ha quindi emesso sabato notte la sentenza di condanna all’ergastolo di 9 persone perché considerate responsabili della morte di una dozzina di poliziotti marocchini. Per quanto riguarda gli altri imputati, in quattro sono stati condannati a 30 anni di carcere, in sette a 25 anni, in tre a 20 anni e in due a due anni di carcere. L’accusa è quella di aver costituito una “banda criminale, che ha perpetrato violenze contro le forze dell’ordine che e che ha portato alla morte di alcuni agenti”. Mentre all’interno dell’aula il dibattito tra la procura e il collegio difensivo è stato molto acceso, all’esterno si è svolto durante tutto il processo un sit-in dei familiari delle vittime. Vedove e madri, che ogni giorno si sono presentate in tribunale, con i volti affilati e tristi dentro i loro poveri zif, strette l’una all’altra nella condivisione del pianto e del dolore. “Siate i nostri portavoce nel mondo – ha detto la mamma di Mugid Abdel Magid, uno dei poliziotti trucidati, parlando agli osservatori indipendenti – non tutto è come appare. Noi siamo saharawi ma siamo anche marocchini. E confidiamo nel re, nel suo aiuto e nella giustizia del nostro paese. Mohammed VI deve andare avanti e nessuno ci deve intimidire”.
Si è trattato del processo più importante degli ultimi anni in Marocco perché le violenze contro i poliziotti sono state particolarmente efferate e i reati sono stati commessi poco prima dell’entrata in vigore della nuova Costituzione marocchina. Per questo motivo si ritiene che possa essere l’ultimo processo di civili che si tiene in un tribunale militare (decisione dovuta al fatto che le vittime sono dei militari) in attesa della relazione della Commissione per i Diritti umani di Rabat che potrebbe chiedere al governo del premier, Abdel Ilah Benkirane, di porre fine a questo tipo di processi. Gli imputati, tutti presenti in aula tranne uno che risulta latitante, erano stati indagati per aver formato una “banda criminale, ricorso alla violenza contro gli agenti della polizia causandone la morte, mutilazione e la profanazione dei loro cadaveri”. Il Codice penale marocchino prevede la possibilità di processare davanti al tribunale militare i civili accusati di omicidio di membri dell’esercito e altri casi simili. I fatti risalgono al novembre del 2010, quando le forze dell’ordine di Rabat hanno proceduto allo smantellamento di un campo di tende montate dagli abitanti di Laayoune che manifestavano per rivendicare alcuni diritti socioeconomici: casa, lavoro e previdenza sanitaria. Prima della decisione dello smantellamento del campo da parte delle autorità era stato raggiunto un accordo tra gli abitanti e le istituzioni marocchine locali e nazionali.
Udienze a porte aperte
Alle udienze hanno assistito la scorsa settimana, oltre alle famiglie delle vittime e degli imputati, anche i rappresentanti delle associazioni dei diritti dell’uomo, delle Ong e gruppi di osservatori: 52 internazionali e 25 nazionali. Il giurista spagnolo José Ma Gil Garre, direttore del Centro di studi sugli affari della sicurezza in Spagna, ha spiegato che questo processo non è “di tipo politico perché si basa su una serie di prove ben fondate”. Secondo l’esperto, il processo si svolge “in condizioni regolari e sono presenti tutte le garanzie di equità”. Nel corso della seduta di mercoledì scorso, la più toccante del processo, il procuratore ha mostrato i filmati relativi alle aggressioni subite dalla polizia l’8 novembre del 2010 mostrando le prove a carico degli imputati e chiedendo il massimo della pena prevista. Secondo Rowaida Mroue, direttore del centro di studi internazionali sullo sviluppo di Beirut, “si è trattata certamente di una sentenza giusta e chiara soprattutto perché le accuse sono state provate dalla procura”. Parlando Mroue ha aggiunto che “questo tribunale ha risposto a tutti i criteri di trasparenza e legalità rispettando i diritti umani grazie anche alla presenza di numerosi osservatori internazionali. La giuria non ha ricevuto alcuna pressione e sono stati rispettati in particolare i diritti degli imputati”.
Il video dell’accusa
A inchiodare gli imputati, che si sono presentati in aula senza manette, scandendo slogan politici tipici di un partito separatista come il Fronte del Polisario, numerose testimonianze che non ci furono vittime civili, ma soprattutto le brutali immagini di un video girato da un elicottero delle forze dell’ordine durante le operazioni di evacuazione pacifica della tendopoli di Gdeim Izik che renderebbero possibile l’identificazione degli imputati. Video che è stato mostrato in aula durante il procedimento e sottoposto a perizia, ma che secondo il collegio degli avvocati della difesa, i migliori giuristi del Marocco, non costituirebbe una prova. A conferma inoltre del fatto che si sarebbe trattato di un’azione organizzata ed eterodiretta, secondo l’accusa, anche il materiale del quale gli imputati sono stati trovati in possesso, ricetrasmittenti, sofisticati telefonini e una gran quantità di denaro, in euro, dollari e dinari algerini. Elementi che avvalorerebbero l’ipotesi che quel massacro possa essere stato deciso altrove per vanificare la nuova politica del Marocco nei confronti della popolazione Sarahwi all’insegna del dialogo, della concessione di aiuti economici e occupazionali, di maggiori garanzie sociali e del riconoscimento del diritto all’affermazione della propria identità e cultura.
Il Fronte Polisario
Il processo che si è tenuto a Rabat “ha riportato alla ribalta un episodio che ha segnato la vita del Marocco, alla pari dell’attentato terroristico avvenuto a Casablanca nel 2003”. L’analista marocchino Abdel Rahman al Manar Aslami spiega in un editoriale pubblicato dal quotidiano saudita Asharq al Awsat che “il mondo ricorda ancora le immagini drammatiche riportate dai media arabi e internazionali delle giornate di violenza del novembre 2010 nel campo di Gdeim Izik, nelle vicinanze della città di Laayoune, la più grande del Sahara occidentale. (…) I marocchini ricordano ancora quanto accaduto a Gdeim Izik, evento considerato alla pari di un attacco terroristico come quello delle esplosioni di Casablanca”.
Le immagini shock dei cadaveri profanati degli agenti di polizia “sono state mostrate nuovamente durante il processo ai 25 saharawi accusati di crimini commessi a Gdeim Izik, evento che torna ora alla ribalta mentre il Marocco è profondamente cambiato dal 2010 grazie alla riforma politica sancita dall’approvazione della nuova Costituzione con il referendum del luglio 2011. Forse è proprio grazie a questi cambiamenti che il Marocco ora, nonostante la gravità dei fatti, è un modello per gli altri Paesi avendo deciso di svolgere un processo che, seppur militare, è a porte aperte sotto gli occhi attenti di osservatori internazionali e giornalisti”. Aslami scrive infine che “il processo è iniziato due settimane fa e sarà l’ultimo procedimento di un tribunale speciale in virtù della recente riforma costituzionale. I magistrati si sono trovati a giudicare un gruppo di persone, molte delle quali ritornate dai campi di Tinduf in Algeria, che hanno approfittato di una manifestazione pacifica iniziata a Gdeim Izik per infiltrarsi trasformandola così in una protesta violenta che potesse minare la sicurezza del Paese in favore del Fronte Polisario”, il movimento politico che sostiene l’indipendenza dei saharawi.
In allegato (http://www.youtube.com/watch?v=4YJI3BL7DUo) il video mostrato nell’udienza del 13 febbraio dalla pubblica accusa durante il processo come elemento di prova a carico degli imputati