Ultraschall a Berlino è di solito un appuntamento imperdibile con la nuova musica. È un po’ come la Berlinale della musica contemporanea. Ma quest’anno ha deluso le aspettative, a partire dal concerto inaugurale, nel quale Kristjan Järvi, sul podio della Deutsches Symphonie-Orchester, ha diretto pezzi d’effetto, ma superficiali, quando non davvero kitsch, come Musica Celestis (1990) di Aaron Jay Kernis, 40 Changing Orbits (2012) di Gene Pritsker, lo svenevole Circle and the Child (2013) Philip Lasser, pur con una pianista d’eccezione come Simone Dinnerstein, e il Concerto per sax (2002) di Roberto Sierra, dove si ammirava almeno il funambolico solista, James Carter, e l’effetto quasi “iperrealista” di citazioni e cliché (del jazz e del sax) spinti all’estremo.
Nel festival c’era un duo piuttosto insolito, il duo Mixtura, con fisarmonica (Margit Kern) e ciaramella (Katharina Bäuml), strumento antico, antenato dell’oboe, suonato anche dagli zampognari: nel programma si alternavano piccoli brani di Francesco Landini con quattro novità appositamente scritte per il duo, da Sarah Nemtsov, da Tatjana Prelevic, dall’iraniano Ali Gorji e dal palestinese Samir Odeh-Tamimi (che è stato allievo di Younghi Pagh-Paan). Ma solo quest’ultimo pezzo andava al di là del puro gusto per le sonorità ricercate ed arcaiche, e mostrava vere qualità musicali, nella scrittura densa, materica della fisarmonica, associata ad effetti soffiati, sonorità gravi e prolungate come ruggiti, continue frizioni microtonali. L’oboe e il pianoforte erano i protagonisti di un altro concerto, affidato ai bravissimi Francois Leleux e Emmanuel Strosser. Ma il porgramma era davvero troppo “classico” per una rassegna come Ultraschall, con la Sequenza di Berio e pezzi di Henri Dutilleux e Antal Dorati, a parte una novità, ma piuttosto noiosa, della compositrice greca Konstantia Gourzi. Meglio le due prime mondiali presentate nel concerto dello Zafraan Ensemble, una dell’israeliano Eres Holz, l’altra del tedesco Johannes Boris Borowski. Kataklothes di Holz, ispirato alle tre Moire della mitologia greca, procedeva per addensamenti, accelerazioni, sviluppi armonici, per raggiungere un climax e poi rallentare e diradarsi. Più interessante Dex di Borowski (che è stato allievo di Kyburz e Stroppa), pezzo per dieci strumenti che prendeva spunto dalle proprietà energetiche di un farmaco steroideo, il Dexamethasone (proibito dall’agenzia anti-doping), giocando su una superficie statica animata da minimi impulsi sonori, cellule basate su un solo intervallo, piccoli rintocchi legnosi delle percussioni, che si sviluppavano in una scrittura varia e fantasiosa, fatta di progressioni, arpeggi velocissimi, stacchi ritmici violenti, fasce brulicanti punteggiate da richiami si uccelli, come una grande voliera.
Bello, ma con poche sorprese, il concerto della Rundfunk-Sinfonieorchester Berlin, diretta da Matthias Hermman, che ha eseguito il bellissimo, e noto Unheimat (2009) per soli archi di Georg Friedrich Haas, insieme alPhantasiestück in C.s Manier (1999) di Friedrich Cerha: partitura raffinata, piena di umori diversi (che prendevano spunto anche da poliritmie africane e eterofonie della musica araba), esempio della grande maestria orchestrale del novantenne compositore austrico, scritta per violoncello e orchestra (solista Bruno Weinmeister) con un esplicito riferimento ai Racconti Fantastici alla maniera di Jacques Callot di E.T.A. Hoffmann. Di Cerha il Trio Boulanger ha poi eseguito i Drei Stücke (2013) per violoncello e pianoforte, e Fünf Sätze (2007) per violino violoncello e pianoforte, pezzi pervasi da grande lirismo e dalla timbrica sempre cangiante. Nel concerto del Quartetto Minguet spiccavano solo due pezzi: Geste zu Vedova (2015) di Wolfgang Rihm, ispirato «ai gesti energetici e alle linee verticali di Vedova, articolate impetuosamente come un tumulto di segni neri», lavoro nervoso, fisico, pieno di gesti secchi e violenti, come una superficie sonora carica di tensione e sempre sul punto di esplodere. E De Arte Respirandi (2011) del veneziano Roberto Rusconi (allievo di Wolfango Dalla Vecchia e Adriano Guarnieri) che si ricollegava a un modo ancestrale di concepire il suono, a partire dall’atto fisico, vitale del respiro, evocando le risonanze tra l’uomo e la natura, «come in un’Epifania», giocando sulle scordature degli strumenti, creando bolle armoniche distorte che sembravano sagomate sulla curva del respiro.
L’Ensemble KNM diretto da Lin Liao ha presentato lavori dei polacchi Cezary Duchnowski e Agata Zubel. Di quest’ultima si sono ascoltati due dei suoi cavalli di battaglia: Shades of Ice (2011), per clarinetto, violoncello e un’elettronica lavica, che alla fine sommergeva tutti gli altri suoni, come un immenso temporale; e Not I (2012) per voce e ensemble, dove la compositrice si esibiva anche come cantante. Partendo dall’omonimo monologo di Beckett (la vicenda di una donna settantenne che ricorda brandelli della sua vita), la parte vocale alternava con grande virtuosismo fonemi, pattern parlati, ticchettii a mezza voce, alcune zone liriche (e molto riverberate), sezioni omoritmiche incalzanti (alla Van der Aa), effetti di eco con l’elettronica. Un vero tour-de-force, molto teatrale, sempre giocato sul ritmo delle parole, anche nella parte strumentale, che creava texturespercussive e complesse stratificazioni ritmiche, come una progressione verso la follia. Molto teatrali, e davvero iconoclasti, anche i due pezzi eseguiti dal percussionista Hàkon Stene. Il primo era una novità di Matthew Shlomowitz, Popular Contexts 8, per Drumkit e campionatore, che mescolava, in modo un po’ naïf, il suono delle percussioni con suoni concreti, rumori di strada, citazioni (dal debussyano Prélude à l’apres-midi d’un faune), stacchi jazz, echi di musiche orientali, suoni di clacson, fischietti, motori, urla, con effetti spiazzanti e momenti esilaranti. Il secondo era un lavoro di Trond Reinholdtsen, che non si è smentito nel suo ruolo di “enfant terrible” dell’opera d’arte totale (o «Opra», come ha battezzato i suoi pezzi il compositore norvegese) che si confronta con i grandi miti come Orfeo, Faust, l’apocalisse o le utopie. In Inferno (2013), basato sul romanzo autobiografico di August Strindberg, metteva in scena il desiderio di conoscenza dell’artista e il suo delirio di onnipotenza, i suoi studi di alchimia e dell’occulto, le sue paranoie e le ossessioni. E lo faceva attraverso una parte musicale e una filmata: nella prima il percussionista si muoveva tra alcuni tamburi e un divano, esplorando le relazioni tra eventi sonori elementari (come un intervallo tra due suoni), associate ad alcune didascalie che rimandavano agli ipotetici albori della musica occidentale (a partire da 50000 fa), e a pensieri danteschi; la seconda parte era un film che rappresentava l’artista ciarlatano, come uno scimpanzé che ascoltava il preludio dei Meistersinger mentre preparava maldestramente una frittata.
Il concerto clou del festival è stato però quello dell’Ensemble Mosaik diretto da Enno Poppe che ha eseguito alcuni lavori dei due compositori presenti a Berlino nel programma del DAAD, Karen Power e Francesco Filidei.Veiled babble della compositrice iralndese, in prima mondiale, era un pezzo molto rumoristico per ensemble e elettronica, che prendeva spunto da suoni dell’ambiente urbano di Berlino (dalle architetture moderne agli edifici industriali abbandonati lungo la Spree), suddivideva l’ensemble in vari gruppi dislocati intorno alla sala, giocava solo su soffi, colpi di chiave, gocciolamenti, turbolenze, creando un’atmosfera sonora ruvida, stridente, ma anche immobile, senza direzione e senza dinamismo, dove tutto sembrava accadere per caso e finire per esaurimento. Pieni di vita e di colore erano invece le due Ballate di Filidei: la raffinatissima Ballata n.2 (del 2011), insieme misteriosa e romantica, nella quale si intrecciavano suoni sottili aerei, semplici successioni accordali, frammenti melodici, piccole progressioni, trascinanti crescendo; e la Ballata n.3 (2013) per pianoforte e ensemble (pianista Ernst Surberg), ispirata da Liszt e da Chopin, rigorosamente costruita su una gamma cromatica discendente, ma estremamente libera e fantasiosa nel trattamento dei materiali, con i suoi scarti dinamici, i repentini passaggi tra zone dense e pulviscolari, gli effetti legnosi e gli arabeschi velocissimi del pianoforte, gli assoli della viola e del corno, gli immancabili fischietti, le esplosioni della grancassa. Un capolavoro. Di Filidei è stata eseguita anche L’Opera (forse), pezzo semi-teatrale composto nel 2009 per sei musicisti e voce recitante: una specie di Pierino e il lupo che raccontava la vicenda di un pesce e di un uccellino, che alla fine venivano uccisi e mangiati. Tutto era costruito come una sorta di rituale, con i musicisti seduti a due tavoli apparecchiati, con bicchieri, bottiglie e posate, pronti alla cena. Ed era fatto di numeri chiusi, con l’ouverture delle cornacchie, la scena delle stoviglie, il recitativo dell’uccellino col fischietto, l’aria del pesce con la bocca aperta, un sensuale duetto d’amore, la scena del cacciatore e del pescatore, la preghiera in latino maccheronico, l’agnus dei della messa dei morti, il banchetto finale nel quale l’amore impossibile tra il pesce e l’uccellino veniva incoronato nello stomaco del pescatore e del cacciatore.