Nella scorsa stagione è stata messa in scena l’opera Jakob Lenz di Wolfgang Rihm, ormai un classico del teatro musicale contemporaneo, ma una rarità assoluta in Italia. Quest’anno il Teatro Comunale di Bologna ha celebrato i quarant’anni dalla scomparsa di Bruno Maderna, con un’esecuzione semiscenica del Venetian Journal (tenore Saverio Bambi) e dello spassoso Don Perlimplin (affidato a tre attori assai noti come Sonia Bergamasco, Syusy Blady e Patrizio Roversi), lavori diretti dall’esperto Marco Angius e affiancati da un incontro di studi su Maderna.
Il prossimo mese andrà in scena l’opera Divorzio all’italiana di Giorgio Battistelli, e sarà la prima in Italia, dopo il suo debutto a Nancy nel 2008. «Il fatto che l’Italia non ami la musica contemporanea – osserva il direttore artistico Nicola Sani – è un invenzione di chi ha voluto gestire le nostre istituzioni musicali senza aprirsi al presente e senza mettersi in discussione, preferendo scelte più comode e relegando così il nostro Paese al ruolo di fanalino di coda nel contesto musicale internazionale. Ma è evidente che la realtà è ben diversa; l’Italia esprime un livello qualitativo straordinario in termini di creatività e di capacità produttive rivolte al presente, alle quali la rete delle fondazioni liriche, dei teatri di tradizione e dei festival articolata nel territorio (nelle grandi città come nelle realtà di provincia e nei piccoli centri) non ha dato e non rivolge le attenzioni adeguate». In questo nuovo corso impresso da Sani al Comunale si inserisce anche la riscoperta e l’allestimento del Trionfo di Clelia di Christoph Willibald Gluck, opera con la quale il teatro, progettato da Antonio Galli Bibiena, ha festeggiato i 250 anni dalla sua inaugurazione, avvenuta il 14 maggio del 1763. Questo dramma per musica in tre atti, scritto su libretto di Metastasio, ebbe allora un grande successo, con ventotto repliche (le prime tre dirette dallo stesso Gluck) e il teatro sempre pieno. Poi l’opera fu abbandonata, forse per le difficoltà delle parti vocali, e cadde nel più completo oblio. Una copia manoscritta della partitura fu ritrovata nel 1904 in un monastero austriaco (ora è custodita al Conservatorio di Bruxelles), ma solo nel 1963 Giampiero Tintori ne curò una trascrizione completa, che fu pubblicata in occasione del bicentenario del Teatro Comunale. L’opera è tornata sulle scene nel 2001, al Teatro di Lugo (con la regia di Massimo Gasparon e la direzione musicale di David Agler), e in una versione incompleta e riadattata, con molte arie accorciate e trasportate per le voci maschili. Solo nel 2007 il ritrovamento del manoscritto originale ha permesso a Giuseppe Sigismondi de Risio di realizzarne un’edizione critica integrale, che è stata pubblicata da Et in Arcadia ego, e poi incisa dallo stesso Sigismondi de Risio per l’etichetta tedesca MDG.
Quando ricevette la commissione per la nuova opera, Gluck avrebbe preferito utilizzare altri testi di Metastasio, come L’Olimpiade, ma la scelta dei committenti cadde proprio sul Trionfo di Clelia, per i suoi contenuti più spettacolari. In questo libretto (che venne musicato, prima e dopo Gluck, da molti altri compositori, tra i quali Hasse, Jommelli, Mysliveček) si mescolano infatti, in maniera del tutto arbitraria e antistorica, fatti, gesta eroiche, personaggi diversi, ambientati nel periodo in cui il re etrusco Porsenna cinse d’assedio Roma per abbatterne la Repubblica, e restaurarvi la monarchia di Tarquinio il Superbo, cacciato dai romani per lo stupro di Lucrezia da parte di Tarquinio Sestio (protagonista del dramma The Rape of Lucretia di Shakespeare, e dell’opera di Britten): così la vicenda della giovane Clelia, presa in ostaggio degli Etruschi, vittima di una pressante corte da parte di Tito Tarquinio, ma capace di fuggire dal campo etrusco attraversando a nuoto il Tevere, si mescola con quella di Orazio Coclite che si lanciò in un eroico combattimento contro l’esercito nemico, impedendone l’accesso al ponte Sublicio, e dando modo ai compagni di demolirlo. Metastasio crea anche una specie doppio triangolo amoroso: fa di Orazio il promesso sposo di Clelia, ma di lei è innamorato anche Tarquinio (eroe negativo, machiavellico, artefice di inganni, calunnie e macchinazioni), che però è promesso sposo di Larissa (figlia di Porsenna), a sua volta innamorata di Mannio, principe di Veio. Questa trama ha stimolato la fantasia del giovane regista inglese Nigel Lowery, che ha riletto l’opera sotto due lenti diverse, non sempre tra loro congruenti. Da un lato (il meno interessante) l’ha interpretata come una storia che incarna ideali di eroismo, giustizia, lealtà, accostandola ai moti rivoluzionai dei primi del Novecento, proiettando immagini di guerra, e facendo apparire sullo sfondo la sagoma di una fabbrica. Dall’altro, ha osservato la storia narrata con lo sguardo incantato di un bambino, come fosse uscita da un libro di Storia romana illustrato per i più piccini, o da racconti di Dickens o di Roald Dahl. Ha sdrammatizzato completamente la scenografia (all’epoca della prima nel 1763, le scene furono disegnate dallo stesso Antonio Galli Bibiena), non solo evitando ogni illusionismo e sfarzo barocco, ma dandole un’impronta insieme infantile e metafisica: l’ha inquadrata in una specie di teatrino di marionette, e la ha costruita come col Lego, con fondali di compensato, sedie, scrivanie, scaffali stile Ikea, botole e scatole. Il ponte sul Tevere era costruito (e poi distrutto) con scatoloni di cartone, i combattimenti e gli incendi proiettati con buffe sagome in miniatura, come cartoni animati, così come proiezioni erano le fiamme e l’acqua del fiume, il cavallo di Clelia era trasformato in un giocattolo. I costumi (di Monica Benini) sembravano poi quelli della recita di fine anno, con Larissa in camicia da notte con una bambola di pezza in mano, gli etruschi vestiti come l’enigmatico signor Wonka, proprietario della Fabbrica di cioccolato. La musica di Gluck appariva assai lontana dai suoi ideali di riforma del melodramma, pur essendo nata a metà strada tra due opere “rivoluzionarie” come Orfeo ed Euridice e Alceste, più legata ai modelli collaudati dell’opera seria (probabilmente per esplicita richiesta dei committenti), con lunghi recitativi secchi (molto tagliati in questo allestimento bolognese), lunghe arie tripartite (con due, tre o quattro strofe nella prima sezione), un solo duetto, niente cori, pochi pezzi strumentali (l’Ouverture, una Marcia ed una Sinfonia). Peccato che la direzione di Sigismondi De Risio fosse piuttosto piatta, poco scattante, a tratti anche imprecisa ritmicamente, incapace di trovare le dovute differenziazioni di colore, di carattere, di dinamica. Discreto il cast (a parte l’inascoltabile, stridula voce del tenore Vassilis Kavayas che faceva di Porsenna un personaggio comico) chiamato ad affrontare ruoli vocali di grande virtuosismo. Spiccavano, per doti tecniche ed espressive, le tre voci femminili di Maria Grazia Schiavo (Clelia), di Burçu Uyar (Larissa), del mezzosoprano greco Mary-Ellen Nesi, che vestiva i panni di Orazio, ruolo che nel 1763 fu del castrato Giovanni Manzuoli.