Il negletto art. 546 cpp prescrive, come è noto, al primo comma sub lett. e), che la sentenza deve contenere “la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con l’indicazione delle prove poste a base della decisione stessa e l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie ”.
E se ciò vale per la sentenza, a maggior ragione vale per i provvedimenti di minor spessore e incidenza, quali le ordinanze e i decreti.
Si tratta della motivazione, vale a dire della “giustificazione” erga alios delle decisioni assunte.
La concisione, dunque, come connotazione della motivazione, ma –implicitamente e inevitabilmente- anche la chiarezza, perché il provvedimento giudiziario (e quello giurisdizionale, in particolar modo) è un atto comunicativo: chiunque lo legga (i diretti interessati, i loro difensori, i giudici del gravame, gli studiosi di diritto, ma anche un semplice cittadino) deve poter capire: a) l’oggetto della decisione, b) la ragione della decisione, c) il percorso logico che ha portato alla decisione.
Il controllo (sulla correttezza) della giurisdizione si opera, certamente, non solo attraverso la pubblicità del processo, ma anche (soprattutto?) attraverso la comprensione delle ragioni del decidere.
Il prodotto finito dell’attività del giudice è un elaborato scritto; esso dunque va confezionato in modo che possa essere “fruito” dai destinatari. Il giudice che scrive male non necessariamente decide male (ma spesso è così, perché chi scrive male –in genere- legge poco), ma, comunicando in modo improprio, da un lato, rende un “servizio” di scarsa qualità, cioè di difficile fruizione, dall’altro, può ingenerare equivoci negli organi deputati a intervenire sulla sua decisione (giudici della impugnazione, della esecuzione, personale di polizia, personale penitenziario ecc.).
Dunque: chiarezza e concisione.
Certo, è pura teoria (meglio: utopia) quella cui si abbandona il legislatore nell’art. 544, quando prevede che, dopo la deliberazione, sia redatta, di regola, la motivazione. Si tratta di una regola “eccezionale”, per così dire, anzi “più che eccezionale”, visto che alla motivazione contestuale non ricorre (quasi mai) nemmeno il giudice di pace. E però va smentito un luogo comune: quello in base al quale una motivazione a lungo meditata debba essere, necessariamente, una motivazione che si estende per pagine e pagine.
Al proposito, vale la pena di sottolineare che il terzo comma dell’appena citato art. 544 del codice di rito prevede che, se la motivazione appare (a chi la deve scrivere) complessa, il giudice può assegnarsi un termine più lungo di quello ordinario, ma non può (non potrebbe) depositarla oltre il novantesimo giorno dalla pronunzia. E la complessità, per come la intende il legislatore, può derivare da due circostanze (che, ovviamente possono anche sussistere entrambe): il numero delle parti, il numero e la gravità delle imputazioni. Si tratta dunque di un criterio squisitamente “metrico”. La difficoltà delle questioni giuridiche da affrontare non è menzionata, non perché non rilevi, ma perché il codice parte dal presupposto (forse ottimistico) che sempre jura novit curia.
Questo avviene nel mondo delle idee.
Nel mondo dei processi (delle indagini, delle misure cautelari, delle sentenze, degli appelli e dei ricorsi) le cose vanno un po’ diversamente.
Non poche volte, infatti, le motivazioni risultano ipertrofiche, “gonfie” di citazioni e/o riproduzioni di atti del procedimento, citazioni (e trascrizioni) che si rincorrono per pagine e pagine, che annegano i dati rilevanti “nel troppo e nel vano” di chilometriche intercettazioni, di estenuanti dichiarazioni di testi, collaboratori di giustizia, imputati, persone informate sui fatti, fino alla integrale riproduzione di informative di polizia giudiziaria.
La colpa, ovviamente, non è del computer che rende possibile, con la c.d. tecnica del “copia (o taglia) e incolla”, la confezione di questi monstra judiciaria. Gli strumenti vanno adoperati, ma vanno adoperati con raziocinio, sempre tenendo presente la finalità che si vuole raggiungere.
Nel processo, certamente, il mezzo non è il messaggio.
E se sommergo il destinatario della comunicazione giudiziaria con una massa di notizie, non selezionate e superficialmente valutate, forse potrò impressionarlo, ma non convincerlo. E il rischio (gravissimo) è che decisioni importanti vengano assunte sulla base di un’impressione, più che di un convincimento.
L’abuso della riproduzione di interi brani di atti di indagine o del processo è stato più volte stigmatizzato dalla corte di cassazione, che ha considerato mal motivato il provvedimento che, limitandosi a riprodurre stralci di alcune deposizioni testimoniali, affermi che, alla stregua delle medesime, sussistono gli estremi -oggettivi e soggettivi- del reato, omettendo il vaglio critico delle risultanze e l’illustrazione della ritenuta riconducibilità del fatto, così ricostruito, alla fattispecie criminosa contestata (cass. sez. VI, sent. n. 39569, 10.10.2002/22.11.2002, ric. Garbaini, Rv 222958 e numerosi precedenti).
Ovviamente, il principio, che, nella pronunzia sopra indicata, esplicitamente si riferisce alla sentenza e, come si è visto, alle dichiarazioni dei testi, deve ritenersi valido per qualsiasi provvedimento giurisdizionale (anzi, giudiziario, purché corredato di motivazione) e con riferimento a qualsiasi atto del procedimento, il cui contenuto sia, puramente e semplicemente, trascritto e non (anche) interpretato, commentato e finalizzato alla dimostrazione di una tesi.
La tecnica della pura e semplice riproduzione delle fonti di prova o degli elementi indiziari mostra la corda, principalmente, in sede di ricorso per cassazione.
Infatti, ciò che si chiede (nel senso di: si può chiedere) alla corte di legittimità non è, come è noto, la rivalutazione di una prova o di un indizio (o, addirittura, la diretta interpretazione di un elemento del procedimento), ma il controllo sulle modalità con le quali il detto elemento è stato raccolto, nonché il controllo sulla coerenza logica della interpretazione che ne è stata fornita. Dunque: il giudice di legittimità non può essere chiamato a condividere la interpretazione che degli elementi procedimentali ha fornito un altro giudice o una parte impugnante; il suo compito è quello di formulare un vaglio circa la correttezza (logica e giuridica) di tale interpretazione, alla luce dei dati disponibili.
Se così stanno le cose, non può avere alcun senso inondare la corte di atti contenenti la trascrizione anche dei colpi di tosse e degli starnuti che i colloquianti hanno “prodotto” mentre parlavano al telefono.
E dunque, tanto la motivazione di un provvedimento di “merito”, quanto quella di un eventuale ricorso, una volta indicati gli elementi rilevanti, dovrebbero limitarsi a chiarire per qual ragione e sulla base di quali dati, sia stata elaborata (o condivisa) una determinata ipotesi ricostruttiva e, se del caso, per qual ragione ne siano state scartate (o siano da scartare) altre. Ed è su tale “prodotto dell’ingegno” che va sollecitato il sindacato del giudice di legittimità, non certo sul puro e semplice “materiale probatorio” (o indiziario). Ciò anche, per la nota ragione, in base alla quale non esiste una prova che possa esser valutata disgiuntamente dalle altre, come avulsa dall’intero quadro ricostruttivo (cass. sez. V, sent. n. 18119, 11.4.2006/24.5.2006, ric. Stasiuc, Rv 233680); di talché la corte di cassazione mai potrebbe pronunziarsi su di essa, ma solo, come anticipato, sui criteri interpretativi e sulle deduzioni logiche che dai predetti dati sono state tratte nella fase del merito. In sintesi, quel che alla corte deve esser chiesto, se si ipotizza un vizio dell’apparato motivazionale, è un mero giudizio di congruità logica sulla interpretazione che del materiale probatorio/indiziario è stata effettuata dai giudicanti; solo nei limiti -è il caso di ribadirlo- in cui la riproduzione di detto materiale è funzionale (nei suoi passi effettivamente rilevanti) al vaglio di logicità, ne è consentita la allegazione al ricorso, ovvero la trascrizione all’interno dello stesso.
Anche perché offrire al giudice di legittimità alcuni frammenti probatori (o indiziari) e pretendere che su di essi la corte di cassazione esprima un giudizio comporta un profondo fraintendimento del ruolo e dei poteri della corte stessa.
Insomma, la motivazione di un provvedimento dovrebbe essere aggredita, in cassazione, esclusivamente sotto il triplice profilo della completezza, della logicità e della aderenza del ragionamento ai dati fattuali.
Ma un dato “bruto” (es. una conversazione intercettata) non è né logico, né illogico; logica o illogica ne è la sua interpretazione. D’altra parte, l’aderenza di un ragionamento ai dati fattuali, comporta necessariamente la selezione e la “gerarchizzazione” di tali dati. E infine, la sovrabbondanza acritica dei dati finisce, paradossalmente, per rendere incompleta una motivazione, perché non è chiaro a quali tra essi si intenda far riferimento.
Quello che si è detto per i provvedimenti del giudice o del pubblico ministero, vale (deve valere) anche per gli atti provenienti dalle parti private. Istanze, richieste, atti di impugnazione dovrebbero essere redatti in base ai medesimi criteri di chiarezza e concisione cui sopra si faceva cenno. D’altra parte, l’art. 581 cpp prescrive addirittura lo schema che l’impugnante deve seguire (individuazione dei capi e punti della decisione che si intendono contrastare, enunciazione delle richieste, illustrazione dei motivi con indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono le richieste). Ebbene, il legislatore, nel pretendere che le ragioni siano “specifiche” e relative a “ogni” richiesta, pone, con evidenza, a carico dell’impugnate un obbligo di precisione e puntualità, obbligo che mal si concilia con la prolissità e l’inconcludenza di un testo.
D’altra parte, il codice del procedimento amministrativo (decreto legislativo 2.7.2010 n. 104) prevede all’art. 3 che tanto il giudice, quanto le parti (ed è ciò che, in questa sede, vogliamo sottolineare) redigano gli atti in maniera chiara e sintetica, mentre l’art. 26 stabilisce che il giudice provvede sulle spese del giudizio (secondo gli articoli 91, 92, 93, 94, 96 e 97 cpc), tenendo anche conto del rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità di cui al ricordato articolo 3.
Si tratta, ovviamente, di una prescrizione di carattere generale, che non può valere per il solo procedimento amministrativo, anche perché è scritto con chiarezza che le predette norme sono dettate in attuazione del principio della parità delle parti, nonché di quello del contraddittorio, in attuazione del giusto processo, come previsto dal primo comma dell’art. 111 Cost.
Il computer è certamente uno strumento “democratico” perché consente a tutti (quelli che lo sanno adoperare) di conoscere-acquisire-utilizzare notizie, informazioni e giudizi che altri hanno formulato, ma la democraticità non si trasferisce necessariamente sui suoi prodotti. Non è “democratico” il provvedimento giudiziario, solo apparentemente rivolto erga omnes, perché ermetico e incomprensibile e, dunque, sostanzialmente privo di giustificazione o, quanto meno (ma, in pratica, è lo stesso), di giustificazione comunicabile. E, per quel che si è detto, è ermetico anche il provvedimento che si limiti ad elencare, riprodurre e citare atti del procedimento, affidando al lettore la loro interpretazione e, quindi, la ricostruzione, piuttosto che la verifica, di un’ipotesi ricostruttiva.
Il principio in base al quale ex facto oritur jus sta a significare che le norme devono regolare le situazioni secondo la loro interseca logica (che però “qualcuno” deve sempre estrarre e interpretare), non certo che un provvedimento giudiziario si giustifica con il semplice richiamo al materiale raccolto in fase di indagine.
La democrazia (sostanziale) vive anche della professionalità -cioè della diligenza e della competenza- dei soggetti cui sono delegate funzioni particolarmente delicate e la competenza dell’operatore del diritto, oltre che di conoscenza di leggi, dottrina e giurisprudenza, deve nutrirsi anche di grammatica e sintassi, merce che non si trova su eBay.