PALERMO. Marcello Dell’Utri è stato il “mediatore contrattuale” di un patto tra Cosa Nostra e Silvio Berlusconi, e in questo contesto tra il 1974 e il 1992 “non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti”, e “ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento”. Così argomentano i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui l’ex senatore del Pdl è stato condannato il 25 marzo scorso a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. La Corte d’appello (presidente Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte) colloca la stipula di questo patto tra il 16 e il 29 maggio del 1974 quando, si legge nelle 477 pagine della motivazione, “è stato acclarato definitivamente che Dell’Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e (dal mafioso palermitano Gaetano) Cinà a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell’Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l’assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi”. Quella riunione, secondo la Corte, “ha costituito la genesi del rapporto sinallagmatico che ha legato l’imprenditore Berluconi e Cosa nostra con la mediazione costante e attiva dell’imputato” Dell’Utri. “In virtù di tale patto –sostengono i magistrati palermitani- i contraenti (Cosa nostra da una parte e Silvio Berlusconi dall’altra) e il mediatore contrattale (Marcello Dell’Utri), legati tra loro da rapporti personali, hanno conseguito un risultato concreto e tangibile, costituito dalla garanzia della protezione personale dell’imprenditore mediante l’esborso di somme di denaro che quest’ultimo ha versato a Cosa nostra tramite Marcello Dell’Utri che, mediando i termini dell’accordo, ha consentito che l’associazione mafiosa rafforzasse e consolidasse il proprio potere sul territorio mediante l’ingresso nelle proprie casse di ingenti somme di denaro”. L’incontro del 1974, secondo la Corte, “segna l’inizio del patto che legherà Berlusconi, Dell’Utri e Cosa nostra fino al 1992. E’ da questo incontro –si legge nelle motivazioni- che l’imprenditore milanese, abbandonando qualsiasi proposito (da cui non è parso, invero, mai sfiorato) di farsi proteggere dai rimedi istituzionali, è rientrato sotto l’ombrello della protezione mafiosa assumendo Vittorio Mangano ad Arcore e non sottraendosi mai all’obbligo di versare ingenti somme di denaro alla mafia, quale corrispettivo della protezione”. Mangano divenne così lo stalliere di Arcore “non tanto per la nota passione per i cavalli” ma “per garantire un presidio mafioso nella villa dell’imprenditore milanese”. Dell’Utri, ricordano i giudici, ha ammesso di aver indicato Mangano a Berlusconi come persona da assumere ma ha sostenuto di non essergli amico, anzi di averne paura. Ma la Corte non lo ritiene credibile. “La continuità della frequentazione, l’avere pranzato in diverse occasioni con lui, sono circostanze -recita la motivazione- che hanno consentito di escludere che i rapporti svoltisi in un arco temporale che ha coperto quasi un ventennio nel corso del quale il Mangano è stato arrestato e prosciolto e poi nuovamente arrestato e poi ancora prosciolto, possano essere stati determinati da paura”. La Corte ha ricostruito nelle motivazioni anche i pagamenti sollecitati dai mafiosi a Berlusconi “quale prezzo per la protezione”, e che secondo i giudici iniziarono subito dopo l’incontro del 1974, con la richiesta di 100 milioni di lire formulata da Cinà, ed esaudita.