Golfo del Messico, 22 aprile 2010, dall’incidente della Deepwater Horizon, una piattaforma della British Petroleum, viene provocata la più grande perdita di petrolio della storia. Per porre rimedio alla situazione passano 150 giorni durante i quali 779.037.744 litri di greggio e oltre 7.000.000 di litri di sostanze chimiche sono disperse in mare.
Nel ricercare le cause della fuoriuscita, i danni e le responsabilità, due registi Josh e Rebecca Tickell portano alla luce una fitta rete di corruzione e depistaggi per alterare e nascondere la verità.
Presentato al Festival di Cannes 2011 come evento speciale fuori concorso, The Bix Fix è un documentario prodotto dalla californiana Green Planet Productions in coproduzione con la tedesca Synergy Productions e la francese Reboot Films. La pellicola – che non ha ancora un distributore italiano – affronta una verità scomoda, perché a muovere i fili della produzione energetica nel Golfo del Messico c’è una oligarchia che antepone alla salute umana e dell’ambiente il profitto personale. Una tragedia che i grandi canali di informazione sembrano aver dimenticato.
La Deepwater Horizon e la tradegia del 22 aprile 2010
Innanzitutto è necessario ricordare che la proprietà della Deepwater Horizon non è della BP bensì della svizzera Transocean, compagnia leader nel settore delle perforazioni off-shore. Un complesso enorme, che estrae qualcosa come 9000 barili di greggio al giorno, per un valore totale di 560 milioni di dollari e data in affitto all’azienda inglese al costo di 496.000 dollari giornalieri. L’esplosione del 20 aprile causa 11 morti e 17 feriti. Immediati arrivano i secchi comunicati della Guardia Costiera. Il controammiraglio Mary Landry è intervistato dall’ABC ed esclude una qualsiasi emergenza ambientale: «Al momento non ci sono perdite, anche che nel caso in cui si verificassero siamo pronti per affrontare l’emergenza». Non la pensa allo stesso modo David Rainey, responsabile delle esplorazioni petrolifere nel Golfo del Messico, il quale puntualizza subito: «Senza dubbio esiste la possibilità di un grande sversamento di greggio».
Dopo appena due giorni la BBC comunica al mondo intero il disastro: a causa del mancato funzionamento delle valvole di sicurezza, il greggio è stato spinto dalla pressione del giacimento e ha iniziato a uscire senza controllo. Da qui iniziano le speculazioni, la corsa contro il tempo e i tentativi della BP di porre rimedio all’emergenza. Dapprima i tecnici della Louisiana ideano l’operazione Top Kill: collocare una sorta di cupola di cemento e metallo in fondo al mare per incapsulare e risucchiare ciò che resta del tubo della piattaforma da cui continua a fuoriuscire petrolio. Tentativo fallito, perché la profondità è notevole (1.500 metri sul fondo dell’Oceano) e perché, come spiega il capo degli ingegneri Doug Suttles, «sul fondo abbiamo incontrato formazioni di idrati di dimensioni superiori al previsto». Charlie Holt, responsabile della BP per le operazioni nel Golfo del Messico, descrive il fallimento con sarcasmo: «Sarebbe più facile riparare qualcosa nello spazio». Intanto i milioni di galloni dispersi nel Golfo salgono a tre e la macchia di petrolio si espande a tal punto che neanche gli aerei della Guardia Costiera della Louisiana riescono a darne forma. Alcuni operai che la notte del 20 aprile lavoravano sulla piattaforma affermano che l’incidente sarebbe stato causato da una bolla di metano, formatasi per il cattivo funzionamento di una valvola di sicurezza. Il secondo tentativo della BP è il progetto Lower Marine Riser Package, una specie di grande imbuto sospeso sopra al pozzo che trasferisce il petrolio in superficie ad una nave cisterna. Operazione correlata è lo scavo di altri due pozzi sussidiari per giungere al pozzo in perdita e cementarlo definitivamente. In parallelo, viene avviato un secondo tentativo con un nuovo tappo per ridurre l’emissione di greggio. Cominciano i primi scricchiolii. La popolazione della costa protesta, l’amministratore delegato di BP si lascia andare ad una poco elegante gaffe: dinanzi ai microfoni dei giornalisti dichiara che «nessuno vuole che questo finisca presto più di me: rivoglio una vita».
Le verità nascoste
Il Presidente Barack Obama esprime tutta la preoccupazione della nazione; i mass media iniziano ad indagare; i titoli della compagnia petrolifera crollano. Così la BP si ritrova sotto pressione e il 15 luglio 2010 annuncia: la perdita è stata fermata. Secondo gli esperti per 13 settimane si sarebbero riversati in mare qualcosa come dai 506 agli 868 milioni di litri di petrolio. Gli stessi solventi e agenti disperdenti usati per limitare i danni avrebbero causato più disastri che benefici. L’ultimo tentativo della BP inizia il 3 agosto e termina il 19 settembre 2010 con l’operazione Static Kill: stavolta niente più tappi, bensì un’iniezione di fango e cemento attraverso i pozzi correlati per deviare il greggio in un bacino sicuro posto a 4 km di profondità.
I danni sono enormi. E a tutt’oggi inquantificabili. Oltre le ovvie consegenze per la salute della popolazione (tumori, malattie respiratorie e cutanee, disagi psichici, intossicazioni da benzene), per la morte della pesca e dell’industria del turismo locali, l’impatto più tremendo è stato quello ambientale. Un intero ecosistema a rischio scomparsa, le bianche spiagge della Louisiana popolate da tartarughe marine, pellicani, aironi, rondini, sterne, piviere, balene, delfini, tonni e gamberi. Salvatore Mazzola, direttore dell’Istituto dell’ambiente marino e costiero del Cnr, ha spiegato a Daily Wired che «la marea nera si è verificata nel peggior momento dell’anno, proprio in contemporanea con la stagione di riproduzione dei tonni e delle acciughe. Tutte queste specie iniziavano a deporre le uova proprio in quel periodo. Le uova una volta schiuse si trasformano in larve che cominciano a fluttuare in mare e costituiscono una frazione importante del plancton: l’ittioplancton. Il petrolio e le sostanze in esso contenute sono andate a inquinare tutta la colonna d’acqua dalla superficie fino al fondale, pregiudicando in maniera considerevole la capacità di nutrimento di questi microrganismi».
Ma a morire nel Golfo del Messico è stata anche la verità. Ed è su questo aspetto che i due registi di The Big Fix puntano. Nel luglio del 2010 un giornalista freelance di New Orleans, C.S. Muncy, diffonde un video nel quale si mostra un pezzo di spiaggia della Grande Isle (Louisiana), in cui il petrolio non sarebbe stato rimosso, ma sepolto con altra sabbia. La BP in questo modo abbatterebbe i costi e aumenterebbe la velocità della pulizia, per venire incontro all’ultimatum che la guardia costiera statunitense ha dato alla società. La compagnia petrolifera, dopo accuse, cambi ai vertici societari e discolpe, è stata condannata a pagare un risarcimento di 20 milioni di dollari. Un cifra irrisoria rispetto al danno provocato.
Polluter Watch
Un elemento fondamentale per tentare di ricostuire la verità di quanto accaduto dopo il 20 ed il 22 aprile del 2010 lo ha dato Greenpeace attraverso Polluter Watch. Sul sito web www.polluterwatch.org è stato pubblicato un dossier di 30.000 pagine in cui emergono i tentativi del Governo americano e della BP di ridimensionare la portata del disastro. Secondo l’organizzazione non governativa, gli scienziati e gli esperti che hanno lavorato ai vari tentativi di chiusura della falla sono stati molto critici verso la Casa Bianca, perché per molti di loro «non è corretto dire che il 75% del petrolio non c’è più». Gli ufficiali governativi della commissione d’inchiesta avrebbero inoltre sottovalutato l’impatto del petrolio sull’ecosistema marino, ed è proprio questo uno dei motivi per cui BP ha mantenuto il controllo esclusivo sui permessi di accesso degli scienziati alle aree colpite dalla marea nera. Stando a quanto affermato dal research director di Greenpeace Kert Davies, la BP stessa avrebbe tentato di manipolare le ricerche finanziate con il Fondo di Ricerca di 500 milioni di dollari stanziati durante l’emergenza e occultare informazioni preziose per la salvaguardia dell’ambiente. Con lo scopo preciso di difendere la propria immagine e il proprio profitto.
Hollywood si mobilita
Intanto il mondo del cinema statunitense prosegue la propria mobilitazione. Prima di The Big Fix il regista Josh Tickell ha infatti realizzato Fuel, documentario incentrato su un cosiddetto “veggie van”, ossia un furgone alimentato non dalla benzina bensì dall’olio da cucina usato. Scopo del film è per poter rendere il pubblico consapevole della necessità dell’utilizzo dei nuovi biocarburanti. Anche le major e le star hollywoodiane si destano dal torpore: Kevin Costner, ambientalista dichiarato, il 22 settembre scorso ha tenuto un discorso al Congresso degli Stati Uniti presentando un piano per porre rimedio ai danni causati dalla marea nera. L’attore premio Oscar ha proposto l’utilizzo di alcuni speciali macchinari in grado di isolare il greggio, separandolo dall’acqua attraverso delle centrifughe, e di una flotta di navi specializzate nel recupero di petrolio e di altre sostanze chimiche. Il suo intervento ha seguito quello del regista James Cameron, che ha esaltato le bellezze e le profondità del mare in film come The Abyss e Avatar. Vista la sua competenza, Cameron è stato invitato nel giugno del 2010 a far parte di una tavola rotonda di scienziati, ingegneri e oceanografi convocata dall’Environmental Protection Agency per trovare soluzioni alla fuoriuscita di greggio nel Golfo del Messico. Ovviamente lo star system vive anche (e soprattutto) di fiction, e allora la società di produzione Summit Entertainment ha acquistato i diritti dell’articolo Deepwater Horizon Final Hour di David Barstow, David Rohde e Stephanie Saul (giornalisti del New York Times) in cui si racconta i momenti che hanno preceduto e seguito l’esplosione della Deepwater Horizon. Nella speranza che il film di prossima realizzazione non sia una semplice escalation di buoni sentimenti e valorosa epica dell’eroe a stelle e strisce.
Com’è andata a finire
È di questi ultimi giorni la notizia dell’accordo tra la BP e la compagnia Weatherford International, implicata nel disastro del Deepwater Horizon. Per risolvere le potenziali richieste di risarcimento danni, le due aziende si suddividono le responsabilità. L’accordo prevede che la Weatherford, società che produce infrastrutture petrolifere, pagherà a British Petroleum 75 milioni di dollari, che saranno aggiunti al Fondo da 20 miliardi istituito dalla multinazionale inglese per far fronte ai danni. Un semplice contentino per chi continua a vivere in quei luoghi. Soprattutto se si considera che a pochi mesi di distanza dal disastro, la BP ha chiesto il permesso per tornare a trivellare a largo del Messico.
Per leggere Deepwater Horizon Final Hour: www.nytimes.com/2010/12/26/us/26spill.html
Per consultare il dossier di Polluter Watch: www.polluterwatch.org
Per vedere gli effetti della marea nera un anno dopo nel video di John Fitzpatrick, direttore del Cornell Lab of Ornithology: www.youtube.com/watch?v=CLVCr9-ZFQw