D’accordo, l’India ha tenuto un comportamento da condannare. Ha fatto rientrare con l’inganno una nostra petroliera che stava oramai navigando lontano dalle sue coste.

Ha svolto un’inchiesta farraginosa e contraddittoria durante la quale sembrano sparite prove piuttosto forti a favore dei nostri militari come i frammenti delle pallottole dapprima incompatibili con le armi in dotazione agli italiani e poi divenuti compatibili, oppure i segni dei colpi d’arma da fuoco sullo scafo (ora affondato) che avrebbero direzione orizzontale e difficilmente si sarebbero potuti esplodere dall’alto di una petroliera. Da ultimo la sentenza del 18 gennaio scorso della corte suprema che ha ribadito la giurisdizione indiana addirittura chiedendo la costituzione di un tribunale speciale.

Però l’India ha anche concesso residenze dignitose ai nostri militari; ce li ha mandati a casa per il Natale e ce li ha restituiti per alcune settimane in occasione delle elezioni. Tale ultimo gesto era certamente da leggere come segno di sostanziale disponibilità; tutto sommato le elezioni da noi durano solo un giorno e mezzo.
Su questo reciproco percorso fatto di gentlemen agreement si doveva costruire una soluzione che fosse dignitosa per entrambe le parti facendo affidamento sulla fervida fantasia dei diplomatici.
E comunque davanti alla protervia indiana, noi avremmo potuto prendere decisioni molto forti giungendo anche alla rottura delle relazioni diplomatiche. Non sarebbe stato impossibile allora ottenere dalle organizzazioni internazionali interventi a favore di un membro che vedeva violati i diritti di due suoi cittadini, per di più militari.
E invece ci siamo impegnati a restituire i marò, per poi dire che non lo avremmo fatto, per poi invece rimandarli in India con la giustificazione improbabile che noi avevamo solo “sospeso” il loro rientro, in attesa che New Delhi garantisse alcune condizioni.

In verità, a pensarci bene, non sembra che i rappresentanti italiani potessero firmare in buona fede alcun impegno a far rientrare i militari. E questo perché tale promessa è in contrasto con almeno tre principi fondamentali del nostro ordinamento: il divieto di estradare all’estero cittadini italiani, il divieto di imporre il ritorno di chiunque in paesi nei quali si rischia la vita, il divieto di essere sottoposti a un giudice speciale.

Ma certo, una volta data improvvidamente la nostra parola d’onore, è solare che eravamo tenuti a rispettare l’impegno preso. Ne va della dignità di una nazione intera. Anche se le condizioni che ci hanno indotto a restituire i marò lasciano assai perplessi. Infatti quanto all’impegno che vengano ospitati nella nostra ambasciata c’è da rilevare che già prima era così e non si capisce cosa abbiamo ottenuto in più. Quanto all’assicurazione che non saranno condannati alla pena capitale, i casi sono due: o in India non sussiste la divisione dei poteri formulata dal Montesquieu oppure non si capisce come un’autorità amministrativa possa dare garanzie su un atto che è competenza di un organo giurisdizionale, a meno di non aver deciso già adesso la concessione della grazia per una condanna che ancora non c’è.

Il risultato finale comunque è che dopo i vergognosi cambi di alleanze che hanno distinto la nostra partecipazione alla seconda guerra mondiale, la considerazione internazionale dell’Italia si era sollevata di poco ed ora giace nuovamente ai minimi.

Già la decisione del governo italiano, in imminente scadenza, di non restituire i nostri militari lasciava sbigottiti. Intanto solo formalmente essa rientrava nei meri poteri di ordinaria amministrazione. Compromettere le relazioni con il secondo paese più popoloso al mondo forse si doveva considerare sostanzialmente atto di competenza di un governo nella pienezza dei suoi poteri.
L’unica ragione che avrebbe potuto indurre l’Italia ad un simile gesto sarebbe stato il preventivo accordo con i massimi organismi internazionali. Ma nessuno di questi si è esposto a nostro favore. Non il segretario generale dell’ONU, Ban Ki-Moon che ha solo auspicato “una soluzione che rispetti il diritto internazionale”.
E nemmeno l’Unione europea per la quale un portavoce di Catherine Ashton, la responsabile per la politica estera, ha spiegato che l’Ue “non fa parte della disputa” tra Italia ed India e “perciò non può prendere posizione nel merito degli argomenti legali riguardanti la sostanza del caso”; ha espresso tuttavia l’incoraggiamento” ai due paesi affinché trovino una “soluzione amichevole” nell’ambito del “rispetto delle regole internazionali”.

Certo tra le righe si sarebbe potuto leggere un tiepido appoggio all’Italia che rivendica la nostra giurisdizione o in alternativa quella internazionale. Ma è troppo poco.
Nessuna dichiarazione dura ed esplicita, piuttosto un pilatesco distacco.
O siamo stati lasciati proditoriamente soli, oppure (più probabile) non c’era nulla di concertato. E questo è sconcertante.

Solo dopo che l’India ha violato palesemente le norme della convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche, l’UE è intervenuta con qualche fermezza, forse più per impedire un pericoloso precedente che per prendere le nostre difese.
E’ da notare che soltanto alcuni ambienti italiani avevano levato il plauso alla precedente decisione del governo che finalmente avrebbe mostrato di “avere gli attributi”. Costoro dimenticano che il primo, grande passo dell’uomo verso la civiltà è stato impedire di farsi giustizia da sé, per rimettere a terzi la soluzione delle controversie e affidarsi alle leggi. Con il nostro gesto eravamo tornati all’età della pietra.

Ora abbiamo cambiato idea, davanti ad una escalation imprevedibile e con il rischio di rovinare per un tempo indefinito i rapporti con un potenziale partner commerciale che è in forte sviluppo e vanta la bellezza di un miliardo e 200 milioni di abitanti; opportunità economiche sterminate a saperle cogliere. Non che questo valga la libertà o la vita di due soldati ma anche la dignità e la parola data da una nazione hanno un valore e vanno preservate.
Adesso la Farnesina ha messo in allarme gli italiani in India, mentre qui c’è chi propone di arrestare o cacciare gli indiani che si trovano in Italia. Intanto la nostra credibilità è compromessa ancora una volta. Che vergogna!

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