Sul calendario economico dello Stato, ottobre è il mese in cui si iniziano le valutazioni in merito alla salute dei conti pubblici. L’obiettivo ultimo è l’approvazione della legge di Stabilità, nomignolo più gentile attribuito all’ex legge finanziaria per volere di Bruxelles, da presentare proprio nel corso del mese.
Come sempre accade, il governo in carica è chiamato a mettere una pezza sugli inevitabili buchi di bilancio che puntualmente si ripropongono, al fine di rispettare la normativa comunitaria sull’indebitamento statale. Il meccanismo è semplice, almeno sulla carta: a fine anno, il deficit dovrà essere inferiore al 3% in rapporto al PIL.
Quando quest’ultimo è negativo, anomalia che negli ultimi tempi si è ripetuta con una certa frequenza, occorre non solo bloccare la naturale crescita della spesa, ma devono essere effettuati tagli e/o aumenti delle imposte, altrimenti il rapporto sballa.
Il Consiglio dei Ministri ha approvato giovedì la bozza definitiva di manovra da presentare alle camere. Il provvedimento è stato ribattezzato “Manovrina” per via dell’entità relativamente piccola: in ballo ci sono 1,6 miliardi di euro, un’inezia se paragonati alle misure approvate dal governo Monti, che superavano i 20 miliardi.
Come da copione, infatti, il lavoro “sporco” è stato eseguito da un governo tecnico, di fatto esente dalla pressione dell’elettorato. Quando lo scorso anno Monti ha provato a concorrere per la formazione di un esecutivo regolare, il consenso si è fermato al di sotto del 10%.
La vicenda mette a nudo le difficoltà insite nella predisposizione di un bilancio pubblico che possa soddisfare allo stesso tempo sia l’elettorato sia i mercati (e quindi le autorità comunitarie), esercizio reso ancora più arduo dalla perpetua condizione di emergenza finanziaria che caratterizza l’Italia. Su tale scenario pesa come la classica spada di Damocle del PIL, la cui mancata crescita (o addirittura la caduta) richiede sforzi notevolmente superiori e soprattutto sfavorevoli dal punto di vista del consenso.
D’altra parte le stime del PIL e del gettito fiscale, sulla cui base si adottano le manovre correttive, sono storicamente influenzate da un “optimistic bias”, ovvero da una sovrastima strutturale, in una sorta di auto-convincimento collettivo sulle speranze dell’economia. In aprile, quando il Documento di Economia e Finanza vede la luce, gli addetti ai lavori sono ben consci del fatto che in ottobre i numeri dovranno essere aggiustati, perché le profezie contabili quasi sempre non si avverano.
Anche questa volta, dunque, il reddito nazionale è stato rivisto più volte: l’anno scorso si teorizzava addirittura un segno più, mentre al momento il PIL dovrebbe perdere intorno ai due punti percentuali. Se a questo si somma la cancellazione, di natura squisitamente politica, della seconda rata IMU ed il mistero che avvolge la Service Tax, l’incertezza diventa preoccupante.
L’esecutivo Letta, vista anche l’instabilità politica, vuole chiudere in modo decente l’anno in corso, rinunciando di fatto ad imprimere un indirizzo chiaro per il futuro prossimo.
Entrando nel merito dei contenuti, il segnale lanciato dal governo riguarda il mantenimento della maggior parte degli impegni presi, con alcune eccezioni che saranno trattate successivamente, al momento della stesura della legge di Stabilità. Spiccano, in particolare, i 210 milioni da destinare al fondo per l’immigrazione, di cui ben 190 milioni andranno al Ministero dell’Interno per far fronte alle spese relative, dalla vigilanza sul territorio al mantenimento dei CIE.
I restanti 20 milioni serviranno per rifinanziare il fondo per gli immigrati minorenni non accompagnati, uno dei temi più sensibili della questione. Sul fronte rinvii compaiono invece il rinnovo della cassa integrazione in deroga ed il taglio del cuneo fiscale, ovvero la tassazione sul lavoro dipendente, temi che verranno affrontati a breve in un decreto parallelo alla legge, quindi sempre entro la fine del mese.
Le proposte più controverse, infine, sono state accantonate, in particolare l’aumento delle accise sulla benzina e dell’acconto IRES per le imprese.
Il vero nodo di ogni manovra, tuttavia, riguarda le coperture finanziarie sia per le nuove misure, nel caso specifico limitate al fondo per l’immigrazione ed all’eventuale taglio del cuneo fiscale, sia per il mancato gettito causato da riduzioni fiscali, in primis l’abolizione dell’IMU.
La ragioneria di Stato ha stimato che per tornare sotto la soglia del 3% occorrono 1,6 miliardi, soldi che il governo intende racimolare attraverso due interventi.
Il primo, pari a 1,1 miliardi, concerne da un lato il taglio lineare al bilancio di molti ministeri (sono esclusi Ricerca, Istruzione e Sanità), dall’altro la riduzione dei trasferimenti agli enti locali. L’ultimo punto rischia di aggravare ulteriormente la condizione di molti comuni italiani, già toccati dal mancato gettito dell’IMU.
La seconda misura, riguardante la vendita di immobili del demanio per un valore di 500 milioni di euro, merita una menzione particolare.
L’acquirente designato, infatti, è Cassa Depositi e Prestiti, istituto partecipato al 70% dallo stesso Ministero dell’Economia e delle Finanze, quindi a controllo pubblico.
Si tratta, in buona sostanza, di un artificio contabile: la Cassa viene di fatto utilizzata per mettere nel bilancio dello Stato un attivo di 500 milioni alla voce “dismissioni”, mentre i conti dell’istituto, quindi il corrispondente passivo, non sono riportati nei calcoli che determinano il rapporto deficit/PIL.
Questo metodo del porre “fuori bilancio” le passività derivanti da una compravendita di beni pubblici tra enti di fatto pubblici non è certo una novità.
Rimane celebre il caso di una manovra di Tremonti, quando a bilancio furono registrati i surplus derivanti dalla “vendita” di moltissimi strade statali a regioni e province, avvenuta sostanzialmente attraverso un cambio di competenze.
Il provvedimento approvato lascia presagire le (non) intenzioni di questo governo in materia di conti pubblici, limitate al mantenimento del Paese sulla linea di galleggiamento. L’assenza di riforme strutturali nel dibattito, tralasciando il vago riferimento al cuneo fiscale, rispecchia il breve orizzonte politico dell’esecutivo, che evita accuratamente di assumersi impegni per gli anni a venire.
Manca un disegno globale: Saccomanni, al quale è stato attribuito suo malgrado il ruolo di contabile piuttosto che di economista, è stato costretto ad occuparsi solo e soltanto dell’anno corrente.
Un deficit sotto la soglia del 3% allontana il rischio di una nuova procedura d’infrazione da parte di Bruxelles, dalla quale siamo peraltro usciti solamente qualche mese fa, tuttavia non si può certo definire un grande successo. Gli italiani attendono misure serie, in particolare sulle imposte, sul lavoro e sulla crescita.
La politica non può limitarsi ancora a chiudere le falle per consentire alla nave di galleggiare, dovrebbe piuttosto assumere il controllo del timone e portare il Paese verso lidi migliori.