La nexi datio, il primitivo istituto dell’arcaico diritto romano, con il quale il debitore volontariamente “si vendeva” al creditore, entrando nel suo mancipium, rimanendovi prigioniero fin quando (e se) avesse saldato il debito, sembra quasi tornato in vita con il decreto legge n. 90 dell’anno di grazia 2014.
L’art. 50 infatti prevede per il neolaureato in giurisprudenza, il quale voglia accedere al concorso in magistratura, un nuovo percorso. Invece di conseguire un dottorato di ricerca, di ottenere un diploma (biennale) in una scuola universitaria di specializzazione per le professioni legali, invece di esercitare l’avvocatura per almeno cinque anni, invece, insomma di seguire una delle strade già tracciate (altre ne sono indicate dalla legge) per accedere a quello che è diventato un concorso di secondo livello, può decidere di entrare nel manicpium di un giudice di affidamento, che, se pure non avrà il jus vitae ac necis nei suoi confronti, avrà certamente la possibilità di decretarne – insindacabilmente – l’ammissione al (o la esclusione dal) concorso per diventare magistrato.
L’accesso in magistratura, infatti – finché non cambia(no) la Costituzione – avviene tramite concorso (art. 106).
E però l’accesso al concorso è regolato dalla legge ordinaria.
Da qualche anno, infatti, il concorso è (diventato) di secondo livello, vale a dire che non basta la semplice laurea in giurisprudenza, ma è necessario acquisire un ulteriore titolo (appunto: dottorato di ricerca, diploma presso le scuole di specializzazione nelle professioni legali, ecc.).
La preparazione richiesta per superare il concorso, tuttavia, rimane (per fortuna, a nostro parere) di taglio eminentemente teorico: il candidato deve dimostrare di avere, non solo una preparazione tecnica (conoscenza di dottrina e giurisprudenza), ma anche una più completa (e complessa) cultura giuridica. Non gli si chiede di saper risolvere casi concreti, ma di svolgere compiutamente tre temi (diritto civile, penale, amministrativo) e di affrontare una durissima prova orale che verte su 16 materie (più una lingua straniera).
È però intervenuta la novità che sopra abbiamo anticipato.
Il decreto legge n. 90 del 2014, infatti, come si è detto, prevedendo la istituzione del così detto “Ufficio del Processo”, dispone che in esso opereranno, come collaboratori del magistrato, il personale di cancelleria e gli stagisti, vale dire ragazzi neolaureati che gratuitamente presteranno la loro opera in questa struttura, in “posizione ancillare” (come testualmente recita la relazione al testo normativo).
Ebbene, all’esito di questi stage, il magistrato di affidamento esprime il suo giudizio (vincolante) circa la possibilità dello stagista di partecipare al concorso per diventare magistrato.
E’ stata quindi prevista (surrettiziamente) un’ulteriore modalità per l’accesso al concorso in magistratura. Un percorso, apparentemente, appetibile perché più breve (18 mesi invece dei due anni della scuola di specializzazione o dei tempi – e della preparazione – necessaria per superare l’esame di avvocato, tanto per dire) e perché dà al giovane laureato l’impressione (l’illusione?) di essere diventato (già) una quasi-magistrato.
Non è tutto oro, però, quello che luccica, anzi, a nostro parere, non lo è affatto.
Non vi è, innanzitutto, alcuna garanzia di completezza della preparazione del futuro candidato, destinato a collaborare, secondo indiscutibile decisione del capo dell’ufficio, lì dove c’è necessità di manodopera (gratuita); d’altra parte, l’esperienza pratica non garantisce l’approfondimento teorico dei problemi. Anche se dovesse capitare con un magistrato di affidamento coscienzioso (che non lo adibisca solo a fare fotocopie o a controllare notifiche ecc.), il neolaureato avrà una esperienza settoriale (e già, solo per questo, deformante) del lavoro giudiziario. Ingolfarsi nella risoluzione di casi concreti (spesso banali o routinari) non accrescerà il suo bagaglio tecnico-culturale.
In realtà, la logica del provvedimento legislativo (il DL 90/14, appunto) è tutta sbilanciata verso la soddisfazione delle esigenze dell’ufficio, piuttosto che verso quelle della preparazione del futuro candidato.
Inoltre, come anticipato, il magistrato di affidamento sarà il dominus incontrastato della sorte di chi “in posizione ancillare” (e in pratica senza diritti o tutele, appunto: come un nexus dell’antico jus Quiritium) sarà chiamato a collaborare con lui. Potranno così crearsi legami clientelari e interpersonali “impropri”, potranno essere coltivati rapporti di fidelizzazione, che accresceranno il peso del fenomeno correntizio nella magistratura. Il parere negativo del magistrato di affidamento sembra, infatti, insuperabile e incontestabile, con evidenti profili di incostituzionalità della posizione di subordinazione assoluta del nexus che si verrà a creare.
Rimangono poi aperti alcuni interrogativi: se il giovane non ha avuto la prudenza, oltre alla possibilità, di seguire “in parallelo” anche un altro iter, egli, una volta che sia stato ritenuto, per sua disgrazia, non idoneo (all’esito dello stage), potrà percorrere un’altra strada? Potrà, ad es., frequentare i corsi presso le scuole universitarie ? e, in caso positivo, potrà farlo senza soluzione di continuità, “agganciando” la pratica (dall’esito infausto) alla nuova esperienza o dovrà attendere il nuovo bando di concorso ? ecc..
Ma gli effetti negativi (anzi paradossali) non finiscono qui.
Poiché la legge prevede che siano ammessi agli stage solo i neolaureati al di sotto dei 30 anni e che abbiano riportato come voto di laurea almeno 105/110, ovvero che abbiano riportato agli esami universitari la votazione di 27/30 nelle più importanti materie giuridiche, è evidente che i migliori, se sceglieranno questa (più breve) via di accesso al concorso, risulteranno, alla fine, i meno preparati, mentre coloro che, non avendo i requisiti di eccellenza sopra indicati, non potranno aspirare agli stage, saranno “costretti” a seguire i percorsi ordinari, maturando una migliore preparazione. Accadrà così che i ragazzi più promettenti rischieranno di non superare il concorso, lasciando chance (e posti) ai meno dotati o, comunque, a quelli che hanno fatto un percorso universitario meno brillante.
La geniale soluzione escogitata dalle sottili menti miniseriali, poi, non risolve nemmeno uno dei più gravi problemi che affliggono il meccanismo del reclutamento dei futuri magistrati: quello censitario. È noto infatti che i ragazzi che hanno alle spalle una famiglia in grado di mantenerli per qualche anno dopo la laurea, si iscrivono ai corsi “privati” di preparazione. I preparatori (in genere magistrati amministrativi, per i quali – non si sa perché – non vige il divieto previsto dal CSM per i magistrati ordinari) si fanno pagare profumatamente per la loro opera, che a volte prevede anche il tentativo cabalistico di individuare (indovinare?) gli argomenti dei temi che verranno assegnati ai prossimi concorsi (la premonizione quasi mai si rivela fondata, ma non importa; importa che gli aspiranti credano nelle qualità divinatorie del nuovo maestro-sciamano).
Ebbene, invece di inventare un “percorso pubblico” di preparazione al concorso (magari attraverso la collaborazione delle Università con la neoistituita Scuola Superiore della Magistratura), il legislatore-prestigiatore estrae dal suo cilindro allettanti escamotage e veri e propri trucchi da magliaro, che, dando ai neolaureati l’illusione di una preparazione “sul campo”, mira in realtà – strumentalizzando le loro speranze – a reclutare manodopera gratuita per le contingenti esigenze dei boccheggianti uffici giudiziari.
Insomma: una truffa ai danni dei giovani, consegnati nelle mani dei “vecchi”. Con buona pace della insopportabile favola della rottamazione e della retorica “del fare”, quasi che “lavorare un fascicolo” equivalesse a preparasi su di un argomento di diritto. Insomma: un addestramento pratico-artigianale in luogo di una preparazione sistematico-concettuale.
Ma non basta.
Il tutto attraverso una produzione normativa contorta, bizantina, opaca, al limite della inintelligibilità.
E infatti il ricordato art. 50 del DL 90/14 (in attesa di conversione, che – per tutte le ragioni sopra illustrate – ci si augura non intervenga) raggiunge il suo scopo attraverso un percorso labirintico. Esso introduce una modifica all’art. 16 octies del DL 179/12, convertito nella legge 221/12 e istituisce, appunto “l’Ufficio del processo”; ma poi introduce un’altra modifica a un altro testo di legge preesistente (l’art. 73 del DL 69/13, convertito nella legge 98/13), aggiungendo il comma 11 bis, che recita testualmente: <L’esito positivo dello stage, come attestato a norma del comma 11, costituisce titolo per l’accesso al concorso per magistrato ordinario, a norma dell’articolo 2 del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160. Costituisce, altresì, titolo idoneo per l’accesso al concorso per magistrato ordinario lo svolgimento del tirocinio professionale per diciotto mesi presso l’Avvocatura dello Stato, sempre che sussistano i requisiti di merito di cui al comma 1 e che sia attestato l’esito positivo del tirocinio>>.
Certo si tratta di una norma della quale non andare fieri, ma i cittadini hanno comunque diritto di capire ictu oculi che cosa ha stabilito il legislatore. Il legislatore infatti è il soggetto (l’unico autorizzato in una società democraticamente ordinata) che indirizza, regola e, in certa misura, determina le nostre esistenze. E allora che sia chiaro quando parla, abbandoni l’oratio obliqua a favore delle espressioni dirette.
I have a dream: soggetto, verbo, predicato.
Ma rimarrà un sogno, finché ci si dovrà vergognare dei contenuti.