Presentato dalla Settimana internazionale della Critica e accolto con grande interesse dal pubblico della 69a Mostra del Cinema di Venezia, Xiao He (Lotus) approda allo Stockholm International Film Festival in programma dal 17 al 28 novembre. Che un’opera prima, come questa realizzata della regista Liu Shu, giri per festival è prassi – soprattutto se il film è bello -, ma che pur riscuotendo consensi all’estero sia clandestino in patria è singolare. Ecco la storia di un film invisibile e di un’artista ribelle.
Xiao He è un’insegnante di lingua cinese in una scuola superiore di una piccola città, in una zona rurale della Cina Settentrionale. Il suo spirito libero e il modo unico di insegnare sono disapprovati da molti, ma Xiao He è piuttosto popolare tra i suoi studenti. I suoi genitori vorrebbero vederla sistemata con un giovane poliziotto, lei è però innamorata di un uomo sposato. L’atmosfera soffocante nella sua città la spinge a trasferirsi a Pechino sperando di poter respirare un po’di libertà e di assecondare pienamente il suo bisogno di autoaffermazione. Costretta a vivere in un appartamento seminterrato a basso costo e a lavorare come cameriera in un ristorante per sopravvivere, anche la vita di Pechino, così idealizzata, non tarda a svelare con cruda oggettività un contesto in cui la violenza e il sopruso sembrano essere due costanti all’ordine del giorno. Dopo ripetuti maltrattamenti e ingiuste umiliazioni un pianto disperato segna l’infrangersi di un sogno…
Gli artisti teppisti
Spaccato della Cina contemporanea, Paese dalle mille contraddizioni, diviso tra tradizione e modernità, eredità maoista e sogno capitalista, la storia di Xiao He è la storia di tutti i giovani intellettuali, in particolare donne, che non hanno ancora realizzato i loro sogni e che per inseguirli abbandonano l’agio della propria casa e il calore degli affetti familiari per vivere una vita di rinunce e sacrifici. Xiao He è la storia di tutte quelle donne che rifiutano di essere donne secondo il tradizionale paradigma cinese, ossia sottomessa, silenziosa, fedele alla linea. E’ la storia di tutte quelle donne che rifiutano la prospettiva di un sereno matrimonio per vivere un amore audace; è anche la storia di tutti coloro che scelgono di vivere come 北漂běipiāo, “vagabondi di Pechino”, giovani intellettuali o per meglio dire “anti-intellettuali”, che lottano quotidianamente contro la “saggezza” comune e sono spesso noti come “混子文青”hùnziwénqīng “artisti teppisti”. La stessa regista Liu Shu ne fa parte, è una di loro, ed è per questo che con estremo tatto e sensibilità è riuscita a coglierne la perseveranza, l’inquietudine, le lotte, le disillusioni, i compromessi e anche la loro resa finale. Xiao He rappresenta il suo grido angoscioso per la gioventù sconfitta della Cina.
Il simbolo del dragone
Liu Shu inizia la sua carriera come giornalista per la CCTV (l’emittente nazionale cinese) in seguito, lasciato il sistema televisivo decide di dedicarsi a quella che è la sua passione: il cinema. “Ho cominciato così a collaborare con un gruppo di registi indipendenti fino a girare io stessa dei documentari”, racconta nel corso di alcune ore trascorse tra bar e passeggiate nelle affollate vie di pechino. I documentari metteo in luce le sue doti, riscuotono grande interesse e la portano a raggiungere la consapevolezza di avere le capacità per realizzare un film. Il suo più grande desiderio, nonché il suo impegno inarrestabile, è sempre stato infatti quello di “girare un film che potesse raccontare il viaggio penoso dei giovani intellettuali cinesi… dall’idealismo alla resa finale”.
Ma girare un film indipendente non è un’impresa da poco soprattutto sul piano economico. Per la realizzazione di Xiao He non è stato ottenuto nessun tipo di contributo esterno, il film è stato completamente autofinanziato dalla regista che ne è diventata anche la produttrice e le è costato oltre 75.000 euro dei suoi risparmi. Essendo un film dai contenuti delicati come la libertà di pensiero e di espressione e dunque in aperta polemica con la società cinese, non vi era alcuna possibilità di ottenere finanziamenti governativi e interpellare le autorità competenti sarebbe stato come offrire il fianco a ogni sorta di censura. Infatti alcune scene del film, come il rapporto tra Xiao He e i suoi studenti basato sul confronto, sul dialogo e sulle letture di brani di Dostoevskij o Kenzaburō Ōe, oppure le scene di fumo o anche la figura del poliziotto priva di qualsivoglia forma di integrità morale, non avrebbero sicuramente passato il vaglio della censura e sarebbero pertanto stati imposti dei tagli che, sebbene avrebbero permesso al film di ottenere il龙标lóng biāo, – “il simbolo del dragone” ossia il marchio che indica l’approvazione da parte del governo e che permette alle pellicole di essere distribuite in patria -, non avrebbero consentito alla regista di dare sfogo a quell’indignazione provocata proprio da simili eventi e che albergava nella sua coscienza scalpitando per essere espressa, sarebbe stata l’ennesima sconfitta di una giovane intellettuale cinese. Come film indipendente invece, il governo non se ne cura e finché la situazione rimane tale la pellicola può circolare liberamente quantomeno all’estero. Certamente fare scelte simili in un sistema totalitario richiede un grande coraggio per i singoli individui perché una volta fuori dal sistema si è marginalizzati, con nessuna protezione contro aggressioni fisiche o psicologiche. Ma se si è persone coscienziose e pensanti non si può evitare di esprimere la propria opinione, offrire il proprio contributo per aiutare il proprio Paese a diventare un luogo più umano, più democratico e più sicuro.
Attivismo, solidarietà e… buddhismo
Alla fine, l’intensa passione e la forte determinazione di questa giovane regista sono state premiate e seppure con grandi sacrifici anche le ristrettezze del budget sono state superate. “Abbiamo cercato di contenere le uscite anche se le spese rimanevano comunque tante ed elevate”, dice Liu Shu e racconta che tutti i ristoranti in cui venivano effettuate le riprese pretendevano un pagamento per ovviare alla sospensione del loro solito business in quelle giornate ma, poiché percepivano meno di quanto richiesto, le permettevano di girare solo per due ore, cosa che non le ha consentito di rifare le scene di cui non era pienamente convinta, lasciandola per certi aspetti insoddisfatta della sua opera. A chi all’estero ha ipotizzato che il film abbia avuto degli sponsor, la regista ha tenuto a precisare che la ripresa delle insegne di alcuni ristoranti utilizzati come location era inevitabile data la loro grandezza.
Rientrata a Pechino dopo l’esperienza veneziana Liu Shu è ritornata alla sua vita di moglie e di madre ed è attualmente anche impegnata nel sociale occupandosi delle persone più bisognose, dei malati, degli anziani, dei bambini e di tutte quelle famiglie che non riescono economicamente ad arrivare alla fine del mese, lavoro che svolge con dedizione e dal quale trae continui spunti di riflessione considerato che, la povertà, l’emarginazione e l’atteggiamento ipocrita e indifferente dei nuovi cinesi “colti” e “arricchiti” verso queste tematiche è un altro aspetto della Cina contemporanea molto interessante e delicato a cui sia lei che tutto il gruppo dei registi indipendenti si sentono molto vicini e che chissà, potrebbe anche diventare il soggetto di una nuova sceneggiatura cinematografica. Per il momento Liu Shu non ha ancora le idee chiare sul prossimo film, vorrebbe però scrivere una storia che parli del Buddhismo e abbia come protagonista una donna cinese.