La battaglia contro l’evasione fiscale è finita su uno dei tavoli più importanti del pianeta, quello del G8, la cui ultima edizione si è conclusa pochi giorni fa in Irlanda del Nord. I grandi del mondo, fortemente preoccupati per gli squilibri economici che caratterizzano molti paesi, hanno dichiarato il loro impegno su questo fronte sostanzialmente per due ragioni.

La prima, di natura economica, riguarda il “far cassa”, fondamentale per attutire la pressione derivante dal debito pubblico, evitando in tal modo l’adozione di ulteriori ed impopolari aumenti delle tasse. La seconda ragione, strettamente connessa alla prima, concerne il tentativo di gettare nel dibattito elementi di giustizia redistributiva, in modo da alleviare le tensioni sociali che stanno montando in diverse realtà. 

I cattivi della situazione sono i cosiddetti “paradisi fiscali”, la cui definizione specifica rimane ancora fortemente discussa. Non è chiaro, infatti, se i paesi che democraticamente decidono di mantenere bassi i livelli tassazione possano essere considerati tali. Nel sistema di welfare anglosassone, ad esempio, la sanità e l’istruzione sono gestite in forma privatistica, per cui gli utenti pagano per i servizi che ricevono.
I regimi fiscali sono dunque più miti, soprattutto per quanto riguarda il reddito d’impresa, i conti correnti ed i movimenti finanziari in genere. Ben diversa è la posizione di chi garantisce il famigerato segreto bancario: in questo caso la ricchezza “nascosta” è probabilmente generata in un luogo differente, per cui la perdita è tutta in capo al paese di provenienza del titolare del conto (o della società intestataria, come spesso accade).
I paesi in questione sono molti e dislocati in diverse zone del mondo. In Europa, il mercato unico dei capitali ha fatto proliferare piccoli paesi come il Lussemburgo, il Lichtenstein, Monaco o San Marino, per cui è ad oggi impossibile impedire l’apertura di un conto da parte di una persona fisica o di una società.
Generalmente, la normativa impone il pagamento delle tasse nel paese in cui ha origine l’attività rilevante in termini fiscali: non basta, dunque, avere la sede legale in un “paradiso”, se poi si opera sostanzialmente in un mercato differente, producendo o vendendo beni e servizi.
Non mancano, tuttavia, scorciatoie ed artifizi legali per evitare i controlli e consentire un risparmio enorme, talvolta grazie ad accordi specifici addirittura con i governi, come nel caso di Apple in Irlanda, finito sul tavolo del Consiglio Ecofin di qualche settimana fa.

Ad onor del vero, alcuni dei grandi accusatori appartenenti al G8 contribuiscono a tenere in piedi alcuni paradisi fiscali. Le Isole della Manica, ad esempio, fanno parte della corona britannica e sono sede di un gran numero di banche ed assicurazioni, godendo di un regime fiscale del tutto autonomo. I cittadini russi, invece, portavano i propri risparmi a Cipro, fenomeno venuto a galla con la crisi debitoria che ha colpito l’isola, con il benestare del governo.
Per quanto riguarda gli USA, lo scheletro nell’armadio si trova nello stato del Delaware, noto per l’efficiente normativa in materia di protezione dei dati bancari.
Se un’azione globale sembra quantomeno improbabile, visto il numero di paradisi e gli interessi contrapposti di molti paesi, in Europa sembra che il velo stia lentamente cadendo.
Cipro è caduta sotto la scure della Troika, che ha minacciato di revocare il piano di aiuti in caso di un mancato accordo sui conti correnti.
Altri, come il Lussemburgo, hanno promesso un’apertura in futuro, ma solo a partire dal 2015: se la scena politica ed economica dovesse cambiare, rimangiarsi la parola non sarebbe certo un problema.
Rimane poi in sospeso la questione più significativa, ovvero i rapporti tra Europa e Svizzera, intramontabile salvadanaio per ricchi di tutto il continente e non solo. Il tema è particolarmente caro all’Italia, visto che buona parte dell’elusione del nostro paese transita per i confini elvetici.

L’approccio fin qui adottato per combattere il fenomeno è stato piuttosto blando, nella convinzione che un attacco frontale avrebbe causato danni diplomatici irreparabili. Con l’avvento della crisi, tuttavia, la questione è diventata sempre più pressante per i governi, in difficoltà nella ricerca di consenso.
Molti hanno dunque intavolato trattative bilaterali per lo scambio d’informazioni con la Svizzera, come la Germania, gli USA e la stessa Italia. Il governo elvetico, dapprima riluttante, ha ben presto capito che il dialogo con i singoli era meglio di un confronto generale. Pur di mantenere il segreto sui conti, la Svizzera ha offerto diversi miliardi di euro da restituire in maniera forfettaria ad alcuni paesi: questi accordi sono tutti saltati e ad oggi la situazione rimane sostanzialmente invariata.
Come era prevedibile, nessuna misura concreta è stata annunciata nel corso del G8, che si è limitato a rimandare il tutto al G20 di settembre. In termini pratici, esistono diverse possibilità d’intervento per cercare di contenere l’evasione, agendo su due livelli: quello diplomatico e quello interno.
Chiedere ai paesi indicati di uniformarsi ai principi OCSE sullo scambio di informazioni, come hanno fatto gli USA nei confronti della Svizzera, è sicuramente un primo passo, ma occorrono strumenti efficaci in caso di risposta negativa. Minacciare misure restrittive sulle transazioni finanziarie, imporre un regime fiscale più pesante per chi opera attraverso conti “segreti”, sarebbe un segnale forte volto a scoraggiare questo tipo di pratiche.
La messa in pratica, tuttavia, si scontra con la realtà dei fatti: un intervento drastico rischia di generare il panico sui mercati, già notevolmente instabili nell’ultimo periodo.
Sul fronte interno, occorre scoraggiare attraverso l’introduzione di pene più severe per i reati fiscali, dal falso in bilancio all’esportazione illegale di capitali. In quest’ottica il redditometro, fortemente discusso per il carattere invasivo della vita privata, rappresenta uno strumento efficace, poiché consentirebbe di richiedere alle autorità straniere controlli selettivi sulle singole persone indagate, venendo incontro alle necessità di entrambi.
A rappresentare un problema sono poi le grandi multinazionali, che operano contemporaneamente in decine di paesi e dispongono delle risorse necessarie per coprirsi dai rischi legati all’elusione.
I ricavi di queste entità rimangono in crescita nonostante la crisi, spesso a discapito delle piccole e medie imprese di cui vanno a sostituire i prodotti, causando un doppio danno all’economia dei mercati in cui sono presenti. Una specifica normativa europea, che non lasci spazio ad interpretazioni, sarebbe dunque auspicabile per gestire queste perdite miliardarie per i governi.

Rimangono infine dubbi sulla reale volontà dei singoli governi e parlamenti di intervenire sull’evasione fiscale, visto che ad essere coinvolti in vicende fumose sono spesso i rappresentanti della classe politica.
Tale concetto si applica perfettamente all’Italia, dove la stretta connessione tra rappresentanti eletti e grandi gruppi industriali e finanziari è particolarmente spiccata.
Per questo occorre una decisione sovranazionale, che costringa tutti ad intervenire anche contro gli interessi personali dei singoli.

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