L’ultimo numero di D donna, inserto femminile di Repubblica, conteneva almeno il 70 per cento di pubblicità con bambini protagonisti. Il sentimento confuso di disagio che assale chiunque, in forma e misura diversa, quando si vedono i bambini così in primo piano all’interno di un sistema di vendita, si può decifrare solo se si smonta il senso profondo del messaggio.
La prima questione è che i bambini, veicolo indiretto dei consumi, sostituiscono sempre di più il consumatore che fruisce del messaggio della pubblicità. Se col corpo della donna erotizzato si fa leva sul fatto che una donna dovrebbe (la pubblicità è fortemente normativa e detta un comportamento) solo sedurre un uomo, quando non pulire casa, assegnandole così un paio di eterni ruoli ripetuti all’infinito, l’uso sempre più esagerato dei bambini fa leva sul desiderio dei genitori di farli somigliare agli adulti, a se stessi quindi, come esaltazione massima del proprio narcisismo. Qui sopraggiunge anche l’aspetto più perverso. Le bambine, di un età che non dovrebbe superare gli 8 anni sono vestite e truccate come Lolite. Chi seducono? Chi legge il giornale. Quindi appunto lettori adulti.
Ma il messaggio pubblicitario suggerisce una norma ben più ambigua e pericolosa: se rappresento sessualmente plausibili bambine e bambini, con quegli abiti, quelle pose, quell’ammicco che imita gli adulti, la legge però, e l’opinione pubblica, condannano severamente la pedofilia. Quindi da una parte il marketing solletica gli istinti più primordiali in modo estremamente ambiguo, dall’altra la società frena e condanna. I bambini del resto hanno una loro spiccatissima sessualità latente e spontanea che nell’adulto sano genera tenerezza e fascino, ma in quello malato, diventa istinto portato all’azione. L’industria, affezionata all’idea del compratore compulsivo e quindi sessualmente sollecitato insiste esattamente su questo aspetto, non trattandosi, come risponderebbe il primo manager interpellato “di una società di beneficenza”. L’ insistenza del mercato sulla bambina e sul bambino erotizzato che in America ha il massimo dell’ espressione nelle agghiaccianti sfilate di bellezza, suggerisce anche la logica del successo travolgente della piccola Carina Victoria figlia del sindaco di San Antonio, Joaquin Castro, che alla convention democratica americana ha battuto tutti gli ascolti. Ben consapevole, così piccola, del potere delle immagini e cosa provocano negli adulti, sapendo di essere ripresa, si è dilungata in mossette vezzose. L’aspetto più interessante è che, impadronendosi della scena ha sostituito interamente il discorso politico. “ Come una diva” hanno ripreso la notizia un po’ ovunque. Finalmente un passo in avanti, per abbattere un nuovo tabù, tutto da sfruttare: a cinque anni si può somigliare a un’adulta che seduce milioni di persone. Quindi in convention televisive, vince quello che per il mercato ha più appeal e viene offerto con sempre maggiore insistenza: i bambini.
A seguito del numero di D di Repubblica nei social network si sono affollate le solite proteste: chi se la prende con i genitori dei bambini (che è un po’ come chi se la prende con le veline o con le Olgettine di Berlusconi e non con un sistema dentro cui o loro o altre farebbero le stesse cose), chi se la prende con la rivista che si vorrebbe progressista e invece non si cura di quel tipo di pubblicità. Altri se la prendono con i pubblicitari poco creativi, i quali, una volta interpellati si dicono loro stessi disperati dalle richieste dei loro clienti… e cioè l’industria investitrice che è poi la stessa che fa sopravvivere la rivista D, gli on line di Repubblica, del Corriere, la tv commerciale di Berlusconi e larghissima parte della Rai. Insomma è l’industria, da quella degli spaghetti alle case di moda che fa sopravvivere l’intera industria culturale, cui si aggiunge anche una discreta partecipazione economica pubblica che, nelle serie infinita di scatole tra politica e affari, riporta di nuovo all’industria. E se Berlusconi coincide interamente con questa logica di marketing, compreso, come si è visto, nelle scelte della sua vita privata imposta anche alla vita pubblica dell’intero paese, l’ insieme del marketing mondiale che finanzia l’industria culturale si basa sulle regole della vendita compulsiva e quindi sessualizzata di tutto, fino alle infinite declinazioni pornografiche. E uno degli altri aspetti è che alle proteste contro questo sistema, si oppongono spesso pensose riflessioni sulla libertà del sesso, quando questo, di fatto, non è mai stato più controllato e irreggimentato e sfruttato dal marketing. Mai, nemmeno in un caso, i veri responsabili sono chiamati in causa.
Così totalmente dimenticato il vero responsabile che pure si autodenuncia sotto al naso del lettore col suo nome scritto a lettere cubitali si arriva alle accuse più fantasiose. Tra tutte vincono quelle contro “le intellettuali di sinistra ” che dovrebbero smettere di parlare di questi argomenti, e smettere di scrivere nei giornali (magari andando a mendicare o farsi dimenticare in un centro sociale) che appunto sopravvivono di investitori privati, essendoci ormai ridotti a un far west neoliberal, che in genere difeso da quelli che si scandalizzano degli intellettuali e spesso anche delle pubblicità. Così in questo meccanismo ridicolo di caccia al responsabile, mai nessuno se la prende con l’amministratore delegato delle case di moda che “pretendono” bambine come Lolite dai loro pubblicitari, e che “impongono” in quel modo quelle immagini alla riviste che sopravvivono grazie a loro.