Si è già molto parlato del Lohengrin diretto da Daniel Barenboim che ha inaugurato la stagione della Scala. Ma al netto delle polemiche della prima, dell’inno di Mameli, dello stucchevole dibattito meglio Verdi – meglio Wagner, del solito, insopportabile contorno di mondanità e ospiti d’onore, vale la pena soffermarsi sul geniale allestimento firmato da Claus Guth.
Il regista tedesco, colto e visionario (cresciuto tra studi di filosofia, di teatro, di letteratura alla Ludwig-Maximilians-Universität e alla Hochschule für Musik di Monaco di Baviera), già ammirato alla Scala per la sua Frau ohne Schatten, ha letto anche il capolavoro wagneriano in chiave psicoanalitica. Ha spostato l’ambientazione dall’alto Medioevo a metà Ottocento, cioè all’epoca di composizione dell’opera, facendone uno spettacolo magnificamente cupo, pervaso di nevrosi e di ossessioni, senza cigni e senza eroi, più introverso che cavalleresco, capace semmai di evocare la sinistra vicenda di Kaspar Hauser, il ragazzo che comparve dal nulla a Norimberga, senza che se ne conoscessero le origini. Questa dimensione oscura, ma insieme profondamente romantica, era accentuata dalla scenografia e dai costumi di Christian Schmidt e dalle luci di Olaf Winter: un cortile all’interno di un grande edificio di legno con tre lunghi balconi-ballatoi, su tre piani, delimitava una spazio scenico ambiguo, a metà tra l’aperto e il chiuso, per la presenza di un grande albero ricoperto di rampicanti ma anche di un enorme lampadario, oltre che di un tavolo e di un vecchio pianoforte verticale, presenze totemiche, elementi di carattere simbolico, non naturalistico.
Nel terzo atto in questo cortile gli alberi si moltiplicavano, formavano una specie di boschetto, che prendeva il posto della camera nuziale, con un canneto, un piccolo pontile, uno stagno, e il pianoforte rovesciato: luogo sacrificale dove, dopo il duetto d’amore, Lohengrin uccideva a bastonate Telramund, Elsa annegava, Ortrud si svenava sul cadavere del marito.
Le ossessioni di Elsa
Nella lettura di Guth, tutto sembrava scaturire dalla mente di Elsa, dalle sue ossessioni (come aveva già immaginato Adorno, secondo il quale a determinare l’intera opera «è la visione di Elsa, in cui essa, sognando, attrae il cavaliere e per così dire tutta l’azione»), e tutto si concentrava sul suo rapporto con Lohengrin, attraverso un lavoro gestuale molto accurato, e una periodica apparizione di flash-back e di visioni. Elsa von Brabant, «colei che viene sempre abbandonata», la ragazza ingenua, orfana dei genitori, affidata a un tutore (Telramund) che la voleva in sposa, accusata ingiustamente di avere ucciso il fratello (Gottfried), materializzava sulla scena i suoi ricordi e i suoi incubi (illuminati da luci fredde e gravide di mistero), rivedeva se stessa bambina, le severe lezioni di pianoforte che le impartiva Ortrud, e il fratellino che la prendeva per mano, che passava lentamente sul ballatoio con una grande ala sul braccio (un po’ angelo, un po’ cigno), che marciava come un soldatino armato di spada, che veniva trasportato, morto, verso un remoto cimitero. La interpretava Anja Harteros, soprano tedesco di origini greche, bloccata da un’influenza nelle prime recite (e per questo sostituita da Annette Dasch), ma poi ripresasi evidentemente al meglio delle sue condizioni. La sua figura dominava sulla scena, con il suo volto duro, un po’ preraffaellita, l’espressione insieme incantata e ieratica, le vesti di un bianco accecante. I suoi gesti erano quelli di una donna traumatizzata e fragile, piena di tic, commovente nel suo frequente stramazzare a terra, ma la sua voce era solida, piena anche negli acuti, e il suo fraseggio elegantissimo. Lohengrin appariva sulla scena come una proiezione della mente di Elsa, non in una splendente armatura d’argento, su una navicella trainata da un cigno (l’unico riferimento in scena erano le piume che svolazzavano ovunque), ma scalzo, sporco, accovacciato a terra, in una posizione fetale. E così alla fine del terzo atto scompariva sulle rive della Schelda. Era un vero antieroe, tremante, insicuro, fragile quanto Elsa, imbarazzato, sempre a piedi nudi (si infilava le scarpe giusto per la cerimonia nuziale, ma poi appena possibile se le toglieva per farsi un pediluvio ristoratore nello stagno), cui Jonas Kaufmann dava le sembianze di una figura romantica, dell’artista incompreso, a disagio nella società.
La voce scura di Lohengrin
Anche lui camminava barcollando, a volte confuso, a volte divertito come un bambino di fronte a qualcosa di incomprensibile, sempre pronto a scappare impaurito, a nascondersi dietro il pianoforte, a lavarsi compulsivamente le mani lorde di sangue dopo avere ucciso Telramund. La sua voce scura, sempre timbrata, seguiva con precisione e grande musicalità le evoluzioni espressive del personaggio, dimostrando una padronanza tecnica straordinaria, uno stupendo legato, bellissime mezze voci, filati, e morbidi pianissimo, al limite dell’udibile, che tenevano il pubblico col fiato sospeso (dall’invantevole «Nur sei bedankt, mein lieber Schwan!» all’etereo «In fernem Land»). Evelyn Herlitzius era una Ortrud dal timbro chiaro, non sempre controllata nell’emissione, ma con un impeto aggressivo nella voce adattissimo (insieme ai suoi abiti rigorosamente neri) a farne un personaggio sinistro, più rabbioso che subdolo e insinuante, molto convincente nel sottomettere il consorte. Il povero Friedrich von Telramund era succube di Ortrud al punto da inginocchiarsi ai suoi piedi nel finale del duetto del secondo atto, per obbedire ai suoi ordini: il baritono Tómas Tómasson non brillava certo per doti vocali, a causa del timbro aspro, del fraseggio ruvido, della voce aperta e sforzata, che spesso si rompeva in gola, ma tuttavia risultava molto espressivo e restituiva bene il carattere tormentato del suo personaggio dall’orgoglio ferito. Completavano il cast un autorevole René Pape (non sempre omogeneo nell’emissione) nei panni del re Heinrich, e il baritono Željko Lučić nel ruolo dell’araldo. Daniel Barenboim esaltava le qualità dell’orchestra scaligera, disegnava spire molto morbide con una cura estrema del dettaglio dinamico e timbrico, plasmava una materia orchestrale fluida e avvolgente, con grande ricchezza di sfumature e varietà di colori, e spesso con tempi lenti. Ma era una materia sempre carica di tensione, pronta a infiammarsi, capace di seguire ogni inflessione del canto, soprattutto gli ariosi di Lohengrin, e duttilissima, nel cogliere ad esempio le cupe atmosfere del secondo atto, la dimensione struggente del terzo, la brillantezza delle fanfare (anche spazializzate, con le trombe sul ballatoio in scena e nei palchetti).