Il tempo trascorso con lui assume un’altra dimensione, come se diventasse sospeso, un po’ rarefatto in quanto tutto intorno si dirada mentre si comincia a notare con attenzione il mondo che scorre nella pienezza della vitalità proprio lì dove c’è lui. In fondo, è un po’ come ritrovarsi in una bolla temporale dove la messa a fuoco è perfetta mentre il resto sfuma indistinto al di là dei contorni.
Sono poche le persone di grande umanità e qualità artistiche come Mario Dondero, capaci di essere completamente immerse nel presente, attente ad ascoltare e pronte a lanciare continui rimandi ad altre situazioni, altri mondi, altri scenari. Lui che alla fotografia è arrivato dopo una stagione da giornalista a Milano negli anni Cinquanta, ha fatto della testimonianza un’arte, essenziale e irruente, rigorosa e affascinante, bella nella sua immediatezza. “Se non vedessi la fotografia come documento – scrive – come testimonianza possente della storia e dei fatti, prevarrebbero in me altri interessi. Parlo di interessi sociali, politici, molto più importanti per me dei fatti estetici. È dall’importanza della fotografia come strumento di assoluta testimonianza che nasce il mio impegno come fotografo”.
L’impegno – nei confronti di se stesso e degli altri -, gli interessi sociali e politici sono ulteriori elementi fondamentali nella vita di Mario Dondero che non conosce distinzione fra l’uomo e l’artista e a cui Bruno Mondadori ha dedicato un bel volume curato da Simona Guerra.
È un ragazzino quando entra a far parte delle brigate partigiane della Val d’Ossola che si rivelerà una scuola di formazione: dura per le condizioni, esaltante per la giovane età. “Sono stato davvero molto fortunato”, racconta Dondero. “Nel campo di concentramento di Mauthausen, nel sacrario degli italiani, ho visto la fotografia di un ragazzo partigiano nato il 6 maggio 1928, la mia stessa data di nascita. Era un partigiano come me, della Val Varaita, ma lui non ha avuto la mia stessa fortuna. Mi sono commosso perché era come vedere me stesso”.
Gli anni del dopoguerra, della ricostruzione italiana, sono quelli della crescita professionale di Mario Dondero con i primi articoli pubblicati dall’Avanti, l’Unità diretto da Davide Lajolo l’ex comandante partigiano Ulisse, e dal Lavoro Nuovo diretto da Sandro Pertini. Nel capoluogo lombardo frequenta il bar Giamaica assieme a Ugo Mulas, Alfa Castaldi, Gianni Berengo Gardin, Uliano Lucas. Il ritrovo “era una specie di università alternativa che, per bizzarria e originalità, scandalizzava i benpensanti. Un bistrot rive gauche, che gli dèi avevano depositato nel cuore di Milano, un piccolo firmamento culturale in cui brillavano stelle quali Camilla Cederna, Giancarlo Fusco, Corrado Stajano, Dini Buzzati, Salvatore Quasimodo, Carlo Carrà” e tanti altri. È in quella stagione che Mario Dondero passa dalla scrittura alla fotografia e ben presto si rende conto che per crescere ulteriormente sul piano professionale deve lasciare l’Italia e recarsi all’estero. La meta è Parigi, quella dell’esistenzialismo, del Nouveau Roman e poi successivamente delle contestazioni universitarie, della metropoli multiculturale, ambienti e situazioni che Dondero frequenta, condivide empaticamente, documenta. La scelta di fissare a Fermo, nelle Marche, una dimora in Italia non lo limita nei viaggi anche in Paesi lontani, dalla Guinea Bissau nel 1970 al Golfo Persico nel 1974, dalla Berlino pochi giorni prima della caduta del Muro al Panshir nel 2005. Come scrive Massimo Raffaelli nell’introduzione al libro, “Mario è un Socrate della macchina fotografica perché il suo credo è dialogico: si sente un compagno di base (per lui la parola ha un valore etimologico, nel senso dello spartire mitemente il pane), è ostile al mercato della comunicazione neocapitalista, affida il suo lavoro solamente a chi ritiene affine (in Italia, a testate quali il manifesto, Diario, il Venerdì di Repubblica, o alle iniziative di Emergency) ed è fedele con orgoglio agli ideali della Resistenza, vale a dire a quelli della libertà e della giustizia sociale”.
Le fotografie di Mario Dondero sono prive di nostalgia ma cariche di sentimenti, principalmente i ritratti (Jean Seberg e Anicée Alvina, solo per citarne due), e il suo sguardo non è quello di un cacciatore di immagini pronto soltanto a cogliere il momento giusto, ma attento a comprendere ciò che sta accadendo.
La sua capacità è di essere qui ed ora lasciando fluire il resto senza timore di perdere l’attimo o di perdersi. È per questo che quando gli chiedi: Mario quanti anni hai? lui ti risponde: ”Adesso ne ho 83, ma me ne sento una quantità industriale di meno”.
Mario Dondero, a cura di Simona Guerra, Bruno Mondadori, pagg. 216, euro 18,00
La fotografia in apertura che ritrae Mario Dondero è di Danilo de Marco