Qual è la lingua più adatta a Twitter? La risposta è il cinese, stando a quanto afferma, un po’ laconico, l’Economist in un articolo pubblicato venerdì 30 marzo. Nel pezzo in questione, il settimanale britannico stila una classifica delle lingue più concise e dunque, almeno secondo l’Economist, più adatte al micro-blogging.
Per confrontare la “sinteticità” dei vari idiomi, la popolare rivista inglese ha provato a tradurre un testo inglese di 1000 caratteri (spazi inclusi) nelle varie lingue prese in esame. Il risultato, esplicitato in un grafico, mostra come il cinese, l’arabo e l’urdu siano le lingue che traducono il testo inglese utilizzando meno caratteri, mentre lo spagnolo assieme all’ungherese e all’italiano sembrano essere le lingue che utilizzano più caratteri e dunque le meno adatte a Twitter &co.
Ma è realmente così? L’inglese e il cinese sono più sintetici dell’italiano? Probabilmente no. L’analisi dell’ Economist infatti parte da presupposti non del tutto corretti. Anche se il cinese e l’arabo utilizzano pochi caratteri per scrivere un tweet, ciò non vuol dire che siano delle lingue “sintetiche”, anzi! Per fare chiarezza sulla questione bisogna rintracciare la definizione di “sinteticità” di una lingua, che in linguistica è una proprietà ben definita che niente ha a che fare con uno stile di scrittura sintetico che ogni lingua può adottare con risultati più o meno adatti alla comunicazione sui social network.
L’indice di sinteticità di una lingua
Secondo una classificazione delle lingue, basata sulla struttura delle parole utilizzate ed elaborata nell’800 dal filosofo e linguista Wilhelm von Humboldt, una lingua sintetica è quella che cambiando le desinenze di una parola riesce a dare molte informazioni e significati senza bisogno di aggiungere altre parole. Secondo l’indice di sinteticità elaborato da Humboldt, risulta evidente che da questo punto di vista l’italiano è ben più sintetico dell’inglese: la parola “scriverò” indica contemporaneamente la persona (io) il tempo (futuro) il modo (indicativo). Mentre per esprimere lo stesso concetto in inglese devo dire “I will write” o “I’m writing”, usando ben tre parole invece di una soltanto. Questo perché la lingua inglese si sta evolvendo in modo da fare a meno delle desinenze, avvicinandosi sempre di più alle “lingue isolanti”, ovvero quelle lingue con poca o nulla morfologia.
Una tipica lingua isolante è, guarda caso, il cinese. La morfologia è semplicemente la struttura grammaticale di una parola che ne stabilisce l’appartenenza a determinate categorie e il modo in cui essa si coniuga (i verbi) o si declina (i nomi). Nel cinese la morfologia è assente perché il cinese è una lingua ideografica, a differenza dell’italiano e delle altre lingue europee che sono invece alfabetiche. Questo vuol dire che per rappresentare un oggetto o un concetto il cinese utilizza un solo segno grafico che simboleggia l’oggetto o l’azione invece di una combinazione di lettere (fonemi/grafemi) come avviene per le lingue basate sull’alfabeto. Il risultato è che, mentre noi ce la caviamo con le nostre 21 o al massimo 26 lettere, i cinesi usano correntemente almeno 3 mila caratteri per definire i singoli oggetti, azioni e contesti. Anche da questo punto di vista è difficile dire che il cinese sia più sintetico delle altre lingue.
La lingua dei social network
Ma allora come si spiega la classifica dell’ Economist? Il cinese o l’arabo appaiono effettivamente “sintetici”, ma questo non vuol dire che queste lingue siano sintetiche, nel senso semiologico. I cinesi, gli arabi o i turchi. probabilmente utilizzano nei blog una lingua più simile a quella parlata, non essendo necessario specificare il contesto o la pronuncia di una parola. Se infatti la scrittura è nata come strumento per fissare il linguaggio, per poter ricordare, rielaborare e controllare, ciò è avvenuto, fino all’avvento di internet e dei social network, al prezzo di un “raffreddamento” della comunicazione: il linguaggio, decontestualizzato ha avuto bisogno di un grado di “formalità”molto maggiore rispetto al parlato. Dovendo infatti funzionare, di norma, in assenza del mittente del messaggio, la lingua scritta ha sempre dovuto esplicitare tutti quei riferimenti che , conversando “a tu per tu”, possono invece rimanere impliciti.
La lingua dei social network è un nuovo tipo di comunicazione, a metà strada fra il parlato e lo scritto , privilegia un’efficacia istantanea perché è una comunicazione immediata che avviene alla presenza dei due interlocutori che interagiscono in tempo reale. La scrittura sui social network torna al qui e ora del parlato, si rituffa nello scambio comunicativo fra soggetti compresenti e interattivi: sui social network, paradossalmente, si parla quando si scrive. È dunque da tener presente che è nato un terzo registro espressivo oltre ai classici “orale” e “scritto”. Un terzo fattore, un fattore X (X Factor, si potrebbe dire…) che non sappiamo se è stato considerato dai redattori dell’ Economist. Probabilmente no. Anche l’Italiano infatti sta mutando pelle per adattarsi ai nuovi canali di comunicazione.
L’avvento di internet sta contribuendo alla nascita di un nuovo registro linguistico semplificato che ben si adatta alla velocità della comunicazione in rete: si pensi a “cmq” al posto di “comunque”, “xò” invece di “però” o “xkè” come contrazione di “perché”. Si potrebbe continuare per ore con infiniti esempi: “6” in vece di “tu sei” o l’uso della “k” al posto del “ch”. Ma il mondo è rotondo e andando avanti prima o poi si finisce per tornare al punto di partenza, cosicché la frase “Sao ko kelle terre per kelli fini que ki contene trenta anni le possette parte Sancti Benedicti” potrebbe tranquillamente sembrare il contenuto di un sms di qualche adolescente contemporaneo, mentre è il primo frammento conosciuto della lingua italiana scritto da un contadino di Montecassino nel 960 d.C.
La lingua italiana, e tutte le altre assieme ad essa, stanno subendo, sopratutto in conseguenza della comunicazione in rete, un processo di semplificazione non solo grammaticale, ma anche dal punto di vista del lessico e della sintassi. Un esempio fra tutti l’uso sempre maggiore di proposizioni coordinate a scapito delle subordinate. Una lingua che è sempre più simile a quella di civiltà meno evolute linguisticamente: la lingua di oggi è più simile alla lingua arcaica di Saffo che a quella di Cicerone, per intenderci.
I social network stanno uccidendo il linguaggio? Molti credono di sì: da un recente sondaggio dell’Università di Manchester, che ha inteso verificare la capacità di scrittura dei ragazzi in età universitaria, il 22% di coloro che si sono sottoposti al test ha ammesso di non essere in grado di scrivere una e-mail corretta, senza utilizzare un correttore ortografico o un dizionario. Il nuovo idioma, nato dalla semplificazione e dalla velocizzazione imposta dalle chat, rischia di diventare l’unica lingua conosciuta per i nativi digitali, immersi fin dalla nascita in un mondo di social network e strumenti di comunicazione web che si moltiplicano di giorno in giorno. Il rischio è quello di uccidere il linguaggio o meglio di sostituirlo con una sua versione molto semplificata. Ma un linguaggio semplificato, incapace di approfondire, implica un conseguente impoverimento del pensiero, perché pensiero e linguaggio sono due facce della stessa medaglia.
Il linguaggio è lo strumento che utilizziamo per pensare e più si riduce la nostra capacità comunicativa, più si riduce il nostro mondo. E’ necessaria dunque un’opera di mediazione culturale e di educazione ai nuovi mezzi di comunicazione. La scuola si sta attrezzando, anche in Italia, per affrontare questo problema. Nel frattempo l’unico antidoto contro la scomparsa della lingua come la conosciamo oggi rimane la lettura dei cari vecchi libri che, anche in formato digitale, sono in grado di trasmettere una profondità linguistica, altrimenti destinata alla scomparsa. Il web sarà sempre di più il campo della comunicazione e, di conseguenza, delle parole nella nostra società, ma la differenza la faranno i contenuti. Sempre più determinante sarà quindi il grado di preparazione che ogni società saprà offrire alle nuove generazioni. Perché qualsiasi sistema di comunicazione l’uomo utilizzi, la parola sarà sempre, come ha scritto Vygotskij, un microcosmo della coscienza umana.