Un recente intervento della Suprema Corte, sezione lavoro, in tema di licenziamento del dirigente pubblico (Cass. civ., sez. lav. n. 5408 del 5 marzo 2013) offre l’occasione per una breve analisi della disciplina speciale vigente in materia, con particolare riferimento alle differenze di tutela rispetto agli altri lavoratori dipendenti.
In ipotesi di illegittimità del recesso dal rapporto di lavoro da parte della P.A., a conferma dell’orientamento da ultimo espresso, anche a Sezioni Unite (cfr. Cass. Sez. Un. n 3677/2009), dalla giurisprudenza di legittimità, gli Ermellini estendono in favore del dirigente pubblico la tutela cd “reale” di cui all’art. 18 della legge n. 300 del 1970, con conseguente diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro.
Ne deriva la pacifica applicabilità alle pubbliche amministrazioni della discussa norma dello Statuto dei lavoratori, a prescindere dal numero dei dipendenti, con relativa assimilazione del rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici a quello della categoria impiegatizia con funzioni dirigenziali.
Nel riconoscere il diritto del dirigente pubblico al ripristino dell’incarico illegittimamente revocato, la Cassazione ha osservato, a sostegno dell’orientamento adottato, come le forme di riparazione economica, quali, ad esempio, il risarcimento del danno o le indennità riconosciute dalla disciplina privatistica in favore del lavoratore ingiustificatamente licenziato, non possano rappresentare, nel settore pubblico, strumenti efficaci di tutela in caso di illegittima rimozione di dirigenti amministrativi.
Peculiarità della disciplina del rapporto di lavoro del dirigente privato. Chiarito il regime di tutela riconosciuto al dirigente pubblico illegittimamente licenziato, non ci si può esimere da un confronto con la differente disciplina operante per il dirigente nel rapporto di lavoro privato, rispetto al quale non si applica l’art. 18, come recentemente confermato in due pronunce della Suprema Corte (Cass. civ., sez. lav. nn. 3175/2013 e 5962/2013).
Al riguardo, occorre preliminarmente evidenziare che il tratto distintivo tipico del rapporto tra il datore di lavoro ed il proprio dirigente risiede, nello specifico, nella fiducia e nella diretta incidenza delle funzioni del dirigente rispetto alle attività di gestione in ragione delle prerogative connesse a tale qualifica.
La peculiarità del rapporto di lavoro dirigenziale si traduce, pertanto, in una rilevante differenza di tutela rispetto agli altri lavoratori dipendenti, con riguardo alla risoluzione del rapporto di lavoro.
Il licenziamento del dirigente è, infatti, sempre possibile proprio in virtù del particolare compito che egli è chiamato ad assolvere, che deve sempre riscontrare la fiducia del datore di lavoro e le scelte economiche dell’azienda.
Indipendentemente dal numero dei dipendenti aziendali, il dirigente non è destinatario della legislazione di garanzia prevista dal nostro ordinamento giuridico, per cui non è operante né il regime della tutela cd “reale” del posto di lavoro ex art. 18 St. lav., né della tutela cd “obbligatoria” di cui alla l. 604 del 1966, essendo prevista unicamente una tutela indennitaria.
Il licenziamento del lavoratore che riveste la qualifica dirigenziale è disciplinato in primis dalle norme contenute nel Codice Civile ed in particolare dall’art. 2118, che regola il recesso dal contratto a tempo indeterminato, prevedendo l’obbligo della corresponsione dell’indennità sostitutiva del mancato preavviso, e dall’art. 2119, che disciplina il recesso per giusta causa.
La disciplina del Codice Civile deve essere integrata con le disposizioni di cui alla contrattazione collettiva di categoria, che prevedono l’obbligo, per il datore di lavoro, di accompagnare il recesso con una motivazione contestuale.
La facoltà di recesso ad nutum ed il parametro della “giustificatezza”. Ai dirigenti non si applica la disciplina che limita il potere di recesso del datore di lavoro e che subordina il licenziamento alla sola presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo, dovendosi far riferimento al più ampio parametro, individuato dalla contrattazione collettiva, della giustificatezza dello stesso.
Nessun contratto collettivo fornisce una definizione di giustificatezza, per cui tale espressione, alla luce dell’elaborazione giurisprudenziale, deve essere intesa nel senso che il licenziamento da parte del datore di lavoro deve essere privo di arbitrarietà e non meramente pretestuoso.
Al riguardo, a conferma del consolidato orientamento giurisprudenziale, gli Ermellini, con la sentenza n. 5962 dell’11 marzo 2013, nel ribadire la non identificabilità della nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente con quella di giusta causa o giustificato motivo, hanno osservato come, ai fini della legittimità del recesso datoriale, possa rilevare qualsiasi motivo idoneo a turbare il legame di fiducia, purchè sorretto da ragioni apprezzabili sul piano del diritto, quale la semplice inadeguatezza del dirigente rispetto a parametri predeterminati, una significativa deviazione rispetto alle direttive generali ricevute o persino un comportamento extralavorativo incidente sull’immagine aziendale.
In caso di assenza di giustificatezza del licenziamento, essendo esclusa la possibilità di reintegrazione del posto di lavoro, spetta al dirigente licenziato un’indennità supplementare di mancato preavviso nella misura prevista dal contratto collettivo applicabile.
Alla luce delle peculiarità della disciplina de qua, i giudici di Piazza Cavour, con la recente pronuncia n. 3175 dell’11 febbraio 2013 hanno, altresì, coerentemente escluso la configurabilità, a carico del datore di lavoro, di un obbligo di repechage di un dirigente licenziato per esigenze di ristrutturazione aziendale, in quanto inconciliabile con la stessa posizione dirigenziale del lavoratore, che legittima la libera recedibilità del datore di lavoro senza possibilità di richiamare i principi elaborati dalla giurisprudenza per la diversa fattispecie del licenziamento per giustificato motivo del non dirigente.