Il giustificato motivo oggettivo del licenziamento individuale non può consistere in una soppressione di posto o di reparto meramente strumentale all’incremento dei profitti aziendali.
La Suprema Corte, sezione lavoro, con la recentissima sentenza n. 5173 depositata in data 16 marzo 2015, ha respinto il ricorso promosso dalla parte datoriale, confermando l’illegittimità del licenziamento intimato al dipendente, ritenuta l’insussistenza del giustificato motivo oggettivo addotto a fondamento del provvedimento espulsivo.
In particolare, il recesso era stato motivato, da un lato, sulla base di un preteso calo delle commesse, nonchè, per altro verso, in ragione dell’intervenuta esternalizzazione del reparto cui il lavoratore era addetto.
Gli Ermellini hanno, tuttavia, ritenuto immuni da censura le statuizioni assunte in sede di merito, ove era stata rilevata l’insussistenza dell’asserito calo dei ricavi, essendo anzi stato riscontrato un aumento dell’utile di bilancio. In secondo luogo, la Corte territoriale aveva escluso potersi attribuire rilievo decisivo all’avvenuta esternalizzazione del processo produttivo, dato il decorso di oltre sei mesi tra la stipula dell’appalto ed il licenziamento del dipendente, evidenziando inoltre la mancata prova dell’impossibilità di utilizzare aliunde il dipendente licenziato.
In sede di legittimità si è quindi ribadito il principio consolidato secondo il quale il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo non può essere determinato da un generico ridimensionamento dell’attività imprenditoriale, bensì dall’oggettiva necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui il singolo lavoratore è adibito, che sia finalizzata a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti. Il datore di lavoro è quindi gravato dall’onere di provare la concreta riconducibilità del licenziamento ad effettive esigenze di carattere produttivo – organizzativo e non ad un mero incremento di profitti, oltre a dover dimostrare l’impossibilità del cd “repechage”, ossia di utilizzare il prestatore in altre mansioni equivalenti a quelle esercitate prima della ristrutturazione aziendale.
Nel caso di specie, i giudici di secondo grado, con valutazione insindacabile in sede di legittimità, hanno ritenuto l’insussistenza di una situazione di crisi aziendale, escludendo che ricorresse l’esigenza di contenimento dei costi e di riduzione dimensionale. Per altro verso, l’avvenuta esternalizzazione dell’attività cui il lavoratore era addetto non poteva parimenti integrare un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, assumendo particolare rilevanza la circostanza per cui il prestatore avesse continuato a lavorare oltre la chiusura del reparto per un periodo comunque non breve, a conferma della non necessità del recesso e dell’esistenza di mansioni utili in azienda.