Il recesso datoriale per giustificato motivo oggettivo preceduto dalla proposta di trasferimento presso altra sede, è legittimo nella misura in cui il lavoratore, regolarmente pervenuto a conoscenza del provvedimento, decida di non accettare l’offerta.
La Suprema Corte, sezione lavoro, con la recente sentenza n. 8843, depositata in data 11 aprile 2013, è intervenuta nuovamente sul tema del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e assolvimento dell’obbligo di repechage gravante sul datore di lavoro.
Nella fattispecie, la Cassazione, nel rigettare il ricorso proposto dal lavoratore interessato dalla chiusura dell’unità produttiva -assente dall’Italia al momento dell’intimazione del recesso- ha ritenuto legittimo il licenziamento del dipendente che, una volta venuto a conoscenza della decisione aziendale, non aveva aderito all’offerta di proseguire il rapporto di lavoro presso altra sede, laddove la Società resistente aveva espressamente subordinato il provvedimento espulsivo alla mancata accettazione del trasferimento. Al riguardo, i giudici di Piazza Cavour hanno recentemente avuto occasione di precisare che, in ipotesi siffatte, il datore di lavoro è tenuto, inter alia, ad avvertire il lavoratore che alla mancata accettazione dell’offerta di una nuova collocazione conseguirà il recesso dal rapporto in corso, come avvenuto nel caso di specie (cfr. Cass. n. 6 del 2 gennaio 2013).
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repechage. Nella fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ossia, secondo la definizione normativa, determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa -configuratosi in ipotesi di chiusura di una singola unità produttiva- grava sulla parte datoriale l’onere di dimostrare, ai sensi dell’articolo 5 della Legge n. 604/66, non solo l’effettiva sussistenza del giustificato motivo oggettivo, ma anche di non poter ragionevolmente adibire il dipendente ad altre mansioni equivalenti o, in mancanza, quale extrema ratio, anche a mansioni inferiori.
In altri termini, in ossequio all’orientamento giurisprudenziale consolidato, il datore è tenuto ad assolvere al cosiddetto obbligo di repechage, dovendo dare prova di aver verificato- all’interno dell’intera struttura aziendale, comprensiva di tutte le unità locali ancora in attività- di non poter utilmente ricollocare il lavoratore che intende licenziare.
In caso di impugnativa del licenziamento comminato, l’onere così individuato si estende, altresì, alla prova che dopo il licenziamento e per un congruo periodo di tempo, non sia stata effettuata alcuna nuova assunzione nella stessa qualifica del dipendente colpito dal provvedimento espulsivo.
Orbene, sull’assolvimento dell’obbligo de quo, nel caso in esame, nulla quaestio, avendo la Società proposto al ricorrente di proseguire l’attività lavorativa presso altra sede, in seguito alla chiusura dello stabilimento al quale era addetto, subordinando il licenziamento alla mancata accettazione dell’offerta di trasferimento.
Legittimità del licenziamento, sebbene intimato durante l’assenza del lavoratore. La peculiarità della vicenda in commento è rappresentata dalla circostanza per cui il lavoratore al momento dell’intimazione del recesso era all’estero, sicchè solo al suo rientro in Italia aveva appreso la determinazione assunta dal datore.
Tuttavia gli Ermellini, condividendo le statuizioni della Corte territoriale, hanno conferito rilievo decisivo alla mancata adesione alla proposta di trasferimento da parte del ricorrente, neppure tardivamente, al suo rientro -come pure sarebbe stato possibile-, nel momento in cui l’atto recettizio ha potuto produrre i suoi effetti, con conseguente avveramento della condizione sospensiva apposta dal datore di lavoro, integrando una legittima ipotesi di risoluzione del rapporto intercorso.