Leggendo il titolo della silloge di Lorenzo Spurio e osservando il disegno in copertina, il pensiero rievoca quelle occasioni in cui abbiamo usufruito della misteriosa sfera subcosciente incline a suggerire icone assai note o consuete osservando oggetti o profili (naturali o meno) dalla fisionomia rigorosamente casuale.
L’allusione concerne la pareidolia (dal greco εἴδωλον, èidōlon, “immagine”, con il prefisso παρά, parà, “vicino”), ossia un’affascinante tendenza istintiva a rinvenire strutture ordinate e sagome familiari all’interno di contesti visivi disorganizzati: ad esempio, «alzare gli occhi e cercare in un mare di nuvole le forme più strane» (spiega Elvio Angeletti), scoprire figure umane nelle nervature del marmo, scorgere la silhouette di un viso sulla superficie lunare (il “sembiante della luna”), identificare immagini nelle costellazioni.
Del resto, ho sempre creduto sia consentito, seguendo il percorso di un training modellare di classica saggezza, cogliere anche da pochi e confusi indizi la matrice ideativa delle intelaiature logico-intuitive intrecciate tra il versificare e la realtà, per individuarne infine messaggi integri e maturi. Come raggiungere lo scopo? Forse in virtù di un ricco gioco di rispecchiamento ed esegesi personale, coincidente a volte con un rappresentare simbolico esplicito rispetto al reale con il quale scaturisce il confronto: anche se il nostro poeta riesce a evitare, precisa Nazario Pardini, «un pedissequo accostamento al correlativo oggettivo di stampo eliotiano».
Se poi interviene, in sintonia con Spurio, la facoltà di gestire visioni pareidolitiche, è agevole varcare la poetica così sviluppata, sensibilizzati da elementi decisivi con un quid contenutistico da recuperare nel punto preciso del suo elaborato di segni e segnali: «Anche i fiumi muoiono / non quando l’acqua si prosciuga / ma quando è sopraffatta dal sangue». Oppure, andando oltre, possiamo captare un insieme non limitato in uno spazio isolato, entrando, con l’aura dell’intrinseca dialettica riflessiva e di stile, nella rete espressiva prescelta: «E tu ti chiedi perché / accade ciò che non ha forma», ribatte Spurio, richiamando l’illusione subcosciente di assistere a un fenomeno iconico privo di dati formalizzati, anzi disordinato, eppure attivo nel reale. E inoltre: «se l’invisibile non c’è / allora non ha mani né unghie / per afferrare e tramortire», dove la scoperta di tratti umani, sebbene minacciosi, appare collegata a una condizione di visibilità, seppure indistinta.
Insomma, con la raccolta Pareidolia, grazie a un’arte relativa a un àmbito di attività antitetiche al già avvenuto, ricaviamo, nel metalinguaggio offerto, gli strumenti per discriminare l’arbitrarietà della vita. Per il semiologo D’Arco Silvio Avalle, magari, la crudeltà della natura, sebbene episodica, aiuterebbe in chiave maieutica, per rimando o contraccolpo, a inoltrarsi in quesiti alquanto esemplificativi, del tipo: «come è fatta, in che modo funziona e soprattutto dov’è la poesia». Nei tardi anni Trenta, Charles Morris iniziava a concepire le tessere del mosaico del celeberrimo Signs Language Behaviour rivisto e corretto nel 1946 (Segni, linguaggio e comportamento), localizzando la peculiarità del τρόπος (tròpos) – linguaggio estetico figurato del significato – nella facoltà di ottenere dati dall’icona medesima, dotata di per sé di un valore indipendente, adeguato a suscitarla. In assonanza ai significati costruiti sui vari fenomeni di pareidolia (“acustica” o “artificiale”), il filosofo statunitense spiega – lo testimonia il docente e antropologo Ferruccio Rossi-Landi – come la «significatività dell’opera d’arte sia sentita far parte di essa: l’opera non è segno di altre cose (se non in parte), ma in certo senso di se stessa». Dunque, «essa è per l’interprete come una trama di riferimenti: un suo aspetto fa sorgere domande e aspettazioni accontentate almeno parzialmente da altri».
Quindi: «Artista è chi riesce a formare oggetti tali da determinare il processo; ma qualsiasi oggetto può dar origine a certe percezioni estetiche, e non c’è mezzo che l’arte non possa utilizzare». Un simile procedere lo ha rilevato nella prefazione Michela Zanarella, sottolineando, in un hic et nunc di ricerca parallelo, le «intuizioni particolari per un pensiero che va oltre», con «immagini insolite, che si affidano a una cultura espressiva e visiva molto raffinata». D’altronde, un simile organismo creativo è il coronamento non solo di uno sforzo intuitivo, ma anche deduttivo, insito nell’esperienza umana, sociale e privata dell’autore. Nell’acrostico siriano intitolato SARIN, scrive Spurio: «Sarebbe facile dire di amare il diverso / Adesso poni dilemmi che risolvi col gas. / Risplendono ancora occhi, offuscati da veli / In mezzo alla secca campagna attonita / Nelle acqueforti sulla pelle che incidono».
Le poesie, di pagina in pagina, tra i capitoli del volume, qua e là accompagnate da riscontri di cronaca, brani citati, dediche, includono passi denotati da sfumature struggenti, o immersi nella routine, mostrando intensa capacità di evocare lati inquietanti della fragilità collettiva, al punto di saper coinvolgere tutti in un’energia solidale e reciproca. Il dolore affrontato dalla poetica di Spurio è spartito da ciascuno dei presenti o assenti: alimenta un fitto nucleo di indicatori idonei a luoghi semantici di stampo convenzionale, ma possiede altresì la caratteristica di tradursi in un messaggio, in una scala di notizie, senza la concorrenza di alcuna traccia di segno tradizionalmente osservabile. Ripercorrendo, così, le radici dell’impianto metalinguistico di Pareidolia, ho ritenuto fosse proficuo associarlo, per comprenderne a fondo il cliché e l’attinenza significante, all’opinione dell’illustre accademico bolognese Luigi Rosiello quando, nella seconda metà del Novecento, stimava opportuno e incoraggiante, nella poesia contemporanea, scoprire un merito conoscitivo rivolto non al mondo oggettuale in toto, bensì alle «possibilità strutturali di realizzazione comunicativa» in essa legittime.
Lo studioso era convinto – ed io con lui – di quanto la letteratura odierna sia investita dal ruolo di compiere la «reintegrazione dell’uomo, produttore di messaggi, nel possesso sistematico degli strumenti comunicativi che gli sono propri». In una spiritualità, quasi a dire, vorticante, Lorenzo Spurio confessa: «C’è da chiedersi / quale è l’attimo / dell’incidente di luna / se i poli lambiscono / polpe di fragole. / Scrivi ciò che pensi: / non è detto che sia / nella mente-groviera». Il lessico, quindi, torna a impadronirsi di un’elegante interfaccia (l’«incidente di luna»), riprende ad adottare sottili veicoli in grado di accostare la langue-parole, divenuta testo, all’idioletto tipico di una sintesi emblematica, equilibrata e omogenea, dell’interlocutore (la «mente-groviera»).
Ancora Charles Morris ha sostenuto, con vigore, la problematicità del decodificare in modo esaustivo un siffatto ordine conciso e simbolico in sé: e, in replica alle molteplici proposte esplicative filosofiche, ha ipotizzato: «D’ora innanzi riconosceremo come segno qualsiasi cosa che soddisfi certe condizioni. Queste condizioni sono scelte tenendo presenti gli usi correnti del termine “segno”, ma può avvenire che non si adattino a tutti questi usi». Ebbene, la poetica di Lorenzo Spurio annuncia in fieri un episodio globale, un’unità di vocabolo e contenuto articolata in un complesso semiotico dove agiscono efficaci sincronie tra l’arco quotidiano e gli elementi funzionali a un ritmato schema stilistico: è giudicata remota la pertinenza di denotatum (“segnato”) da referente o semplice oggetto, sviluppando nodi di significante inerenti qualcosa di più dell’aspetto cadenzato musicale ricreato in ogni pausa, metafora o metonimia. Condividendo il parere di Morris, ne potrebbe emergere, in un iter esegetico coerente, uno spazio allargato in pari misura all’esperienza del lettore e dell’autore. Esso appare quale ambito significativo all’altezza di “ospitare” il reale: assicurato e rielaborato, è vero, per via dei dati empirici singolari, benché non esentato per questo da un orizzonte comune, anzi arricchito di una totalità ricavata dall’autentico essere, nello stesso tempo, scritto e desunto, vissuto e maturato.
In definitiva, ricordando l’invito di Spurio: «Dici nella carta quel che vuoi, / sempre alzi lo sguardo / non credi che vivi se lotti / nei giorni che – uguali – scivolano», accogliamo il seguente monito: «I sonetti spesso si logorano», ma «non è un canto nevralgico». E, là dove si afferma l’«idea di sperare / nei versi che s’irradiano / mentre i raggi reclamano», coltiviamo il morrisiano concetto di «qualsiasi cosa che permette il compimento della sequenza di risposte cui l’interprete è disposto in conseguenza del segno».
Da giovane, studiando la Teoria della letteratura dei grandi critici statunitensi René Wellek e Austin Warren, rimanevo perplessa nel prestare fede ai loro enunciati – adesso, al contrario, a pieno motivati – quando spiegavano: «L’opera d’arte letteraria non è né un fatto empirico, nel senso proprio di uno stato d’animo di qualunque determinato individuo o di qualunque gruppo di individui, né un immutabile oggetto ideale come potrebbe essere un triangolo». In altre parole, «essa può diventare un oggetto di esperienza, che è accessibile solo attraverso l’esperienza individuale, senza però identificarsi con alcuna esperienza. È diversa da oggetti ideali come i numeri, perché è accessibile solo attraverso la parte empirica della sua struttura, il sistema dei suoni, mentre invece un triangolo o un numero possono venire intuiti direttamente».
Poi, molti anni dopo, apro le pagine di Pareidolia e leggo: «Hai da sapere che l’elleboro / spesso si gira con vergogna: / non ha la tua possanza / e l’ombra che gli dai / – a triangoli – lo incupisce / nel riverbero che sempre sembra ritornare». E, lo sappiamo, tornerà.
Lorenzo Spurio
Pareidolia.
Poesie
prefazione di Michela Zanarella, nota di lettura di Nazario Pardini, commento di Elvio Angeletti
Cosenza, The Writer Edizioni Ass., 2018, pp. 120, € 10,00