A tre anni dall’inizio della primavera araba è caos in nord Africa con la Libia e l’Algeria che sono sulla soglia della guerra civile e del golpe, mentre la Tunisia si è salvata solo all’ultimo minuto grazie alla rinuncia degli islamici di Ennahda al potere, alla luce del golpe militare avvenuto in Egitto contro gli islamici locali, e la nascita del nuovo governo di unità nazionale di Ali Jomaa. L’ultimo paese della regione in ordine di tempo ad aver sfiorato il colpo di stato e la guerra civile è la Libia.
Mercoledì scorso, inaspettatamente, l’emittente televisiva “al Jazeera” rivelava che le autorità di Tripoli avevano sventato un tentativo di colpo di stato. Il giorno prima c’era stata una riunione alla quale hanno partecipato 60 personalità del mondo militare e civile, teso a preparare il piano golpista. Giovedì invece è stato annunciato l’arresto di 30 ufficiali dell’esercito coinvolti nel piano golpista. Eppure solo alcuni media libici avevano reso noto che tra i militari che avevano partecipato alla riunione dei 60 c’era anche il generale Khalifa Haftar. Notizia passata sotto silenzio fino a ieri mattina, quando il generale in questione, lancia un proclama pubblico annunciando l’avvio di un colpo di stato. Il militare, chiacchierato da anni per aver lavorato tra le fila della Cia americana, ha letto un proclama sulla falsariga di quello letto dai militari egiziani il 3 luglio scorso, alla vigilia del golpe che ha deposto il presidente Mohammed Morsi e il governo dei Fratelli musulmani, annunciando l’avvio di una road map che avrebbe portato ad una fase di transizione verso la democrazia al fine, a suo dire, di “salvare il paese dal caos delle milizie”.
Peccato però che questo proclama non ha trovato alcun seguito da parte dei militari libici né della popolazione locale. Ad un’ora dalla sua diffusione la vita a Tripoli si svolgeva regolarmente, con l’aeroporto e tutte le sedi istituzionali normalmente funzionanti. E’ stato facile quindi per il premier libico, Ali Zidan, smentire le parole di Haftar definendole “ridicole”, e spiccare un mandato di cattura per tentato colpo di stato. Haftar infatti, a differenza del generale Abdel Fattah al Sisi in Egitto, non gode di un gran seguito in Libia e non tiene in mano tutto l’esercito, che a sua volta è in difficoltà davanti alla strapotere delle milizie locali. Il tentato golpe di Haftar giunge però al termine di una settimana di scontri politici molto forti iniziati due settimane fa, quando il 7 febbraio, in scadenza di mandato, il parlamento ha deciso di prolungare di un anno la legislatura, per poter portare a termine le riforme che non era riuscito a fare. Questa decisione ha scatenato la protesta dei partiti e delle milizie locali che in quello stesso giorno hanno organizzato una serie di manifestazioni di protesta, per ottenere lo scioglimento della camere e nuove elezioni, stando attenti però a non far sfociare la loro rabbia in violenza.
Analoga situazione di caos politico-istituzionale si registra nella vicina Algeria dove, a poco più di due mesi di distanza dalle elezioni presidenziali del 17 aprile non è chiaro se il capo di stato, Abdelaziz Bouteflika, si candiderà o meno per il quarto mandato presidenziale. Il dubbio riguarda le condizioni fisiche del presidente, colpito lo scorso aprile da un ictus che lo randa quasi incapace di muoversi autonomamente o di parlare in pubblico. Lo stesso presidente, secondo fonti citate dal quotidiano “al Quds al Arabi”, avrebbe più volte fatto sapere di non volersi ricandidare, ma il suo entourage cerca in ogni modo di convincerlo a ripresentarsi, con l’idea di nominare poi un vice presidente facente funzione, in modo da non perdere il potere. Il quadro politico algerino è stato quindi infiammato da aspre polemiche e lotte intestine che mostrano il delinearsi di una profonda spaccatura tra l’establishment del capo dello Stato, Bouteflika, e il potente direttore del Dipartimento intelligence e sicurezza (Drs), Mohammed Mediene, detto generale Toufiq, considerato l’uomo forte del regime. Dopo la sua malattia, su pressioni del suo entourage, tra i quali del fratello Saad Bouteflika, il presidente aveva operato una complessa riforma istituzionale volta a limitare le prerogative dell’intelligence, sottraendo al Drs, tra le altre cose, la gestione del Centro di comunicazione e di diffusione (Ccd), della Direzione centrale per la sicurezza dell’esercito (Dcsa) e della sua forza di polizia giudiziaria. Il controllo di questi organismi era passato invece sotto la gestione del nuovo viceministro della Difesa, Ahmed Gaid Salah, già capo di Stato maggiore delle forze armate e uomo di fiducia di Bouteflika.
Per questo il generale Mediene è diventato di fatto uno dei più autorevoli oppositori alla ricandidatura di Bouteflika, mentre a guidare il fronte dei sostenitori c’è il segretario del Fronte di liberazione nazionale (Fln), partito di governo in Algeria, Ammar Saadani. In questo contesto, la diatriba tra sostenitori e oppositori di Bouteflika si è trasferito anche all’interno dello stesso partito di governo, l’Fln. Saadani alla fine della scorsa settimana ha accusato direttamente per la prima volta il generale Mediene di “essersi messo di traverso” alla candidatura di Bouteflika per le prossime presidenziali. Parole che hanno profondamente diviso il partito, con la formazione di due fronti opposti. Uno a difesa di Saadani, l’altro a favore di Mediene. Per la prima volta quindi nel paese si è arrivati ad un profondo e violento scontro al vertice del regime messo a tacere dallo stesso Bouteflika.
Approfittando della tragedia aerea che la scorsa settimana ha colpito l’Algeria, con un aereo militare carico di soldati precipitato fuori Costantina, il capo di stato nel dare le sue condoglianze alle famiglie delle vittime è entrato direttamente nella polemica scaricando Saadani e chiedendo di porre fine allo scontro istituzionale. In particolare il presidente ha duramente criticato il suo maggior sostenitori, senza citarlo mai direttamente, sostenendo che “è sbagliato portare avanti una polemica istituzionale che ha raggiunto livelli mai visti prima in un momento nel quale è necessario restare uniti”. Secondo il leader del partito islamico di Ennahda, Abdullah Djaballah, “Bouteflika resterà al potere fino a quando sarà fisicamente in grado di farlo, l’ho detto la prima volta nel 1999 e lo ripeto oggi. La sua ricandidatura dipende solo da questo”.