Come una volta ebbe a ricordare Franco Bassanini, dopo un incontro con il ministro suo omologo nel governo Major incaricato della semplificazione amministrativa, il cancelliere del ducato di Lancaster dichiarò: la deregolazione «è una guerra che non si vince mai (…) il mio lavoro è semplificare, delegificare e deregolare, ma quasi tutti i miei colleghi di gabinetto fanno l’opposto. È una tela di Penelope, ma se io non sciogliessi di notte le complicazioni che essi scrivono di giorno, finiremmo sommersi da una sorta di inestricabile giungla legislativa» (XIII legislatura, Camera dei deputati, Resoconto stenografico dell’Assemblea, seduta n. 605 del 18/10/1999, pp. 14-15).
L’articolo 1 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, quando sarà passata la “guerra delle professioni”, dovrà confrontarsi con questa realtà: è ben vero che il suo comma 1 delimita la sopravvivenza delle norme che prevedono limiti numerici, autorizzazioni, licenze, nulla osta o preventivi atti di assenso dell’amministrazione – per l’avvio di un’attività economica – solo a quelle il cui contenuto sia giustificato da un interesse generale, costituzionalmente rilevante e compatibile con l’ordinamento comunitario nel rispetto del principio di proporzionalità. È però anche vero che la tematica si interseca con quella della “forza di resistenza passiva” delle previsioni di liberalizzazione e di semplificazione, rispetto alle quali nel recente passato si è registrata una forte spinta di revisione costituzionale: la “legge rinforzata” – di cui il paper n. 107 dell’istituto Bruno Leoni (12 dicembre 2011) menziona il potenziale di salvaguardia dei cittadini dalle ingerenze della pubblica amministrazione nelle loro attività – potrebbe meglio conseguire la stessa finalità di cui al tentativo di revisione costituzionale operato con l’Atto Camera n. 4144-A (cfr. il disegno di legge di revisione costituzionale Atto Senato n. 3091, “Limiti all’abrogazione tacita di determinate leggi previste dalla Costituzione o nelle leggi costituzionali”, d’iniziativa del senatore D’Alia).
Il diritto dell’Unione europea s’era in passato confrontato proprio con il problema della sua “primazia” nei confronti delle norme nazionali successive, addivendendo anche da noi, con la sentenza della Corte Costituzionale 5 giugno 1984 n. 170, alla disapplicazione delle norme nazionali divergenti: in tal senso – anche in riferimento al decreto n. 59/2010 di recepimento della direttiva Bolkenstein – s’è espresso il T.A.R. Sicilia (Palermo) sez. II, sentenza 9 settembre 2010, n. 10030, ribadendo il generale divieto di regolamentazioni, programmazioni e determinazioni suscettibili di imporre limiti numerici o distanze minime tra esercizi, in forza del principio generale dell’ordinamento comunitario della libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione.
Eppure, se il comma 4 del citato articolo 1 pone l’obbligo di adeguamento delle Regioni, delle Province e dei Comuni ai principi sopra indicati entro il 31 dicembre 2012 – il problema evidentemente sussiste: sia per “sradicare” le norme esistenti, sia per “diserbare” le nuove. Come mai?
La prima, spontanea riflessione attiene al povero stato della nostra pubblica amministrazione: se si è posta l’esigenza di apprestare un meccanismo legislativo di “ripulitura” dell’ordinamento dalle discipline incompatibili con la libera iniziativa, è perché la media di inventiva ed intraprendenza dei pubblici funzionari è bassa, e la prudenza è elevatissima. Essendo assai diffuso il timore di incorrere nella censura di non dare attuazione ad una norma di legge vigente (che prevede, com’è retaggio secolare, gravosi procedimenti amministrativi espressi), nei fatti si demanda alla sede giurisdizionale una ricognizione dell’effetto abrogativo tacito od implicito – sulle norme esistenti – delle norme europee di tutela della libera concorrenza. Nei fatti si affida al cesello della magistratura il compito di apprezzare l’incompatibilità tra le vecchie e le nuove norme, attingendo ai criteri ermeneutici di cui all’articolo 15 delle preleggi (abrogazione cosiddetta “tacita”, in quanto la norma abrogata non è citata testualmente ma la sua identificazione discende dalla incompatibilità con la norma abrogante): benché tale abrogazione possa essere rilevata da qualunque soggetto chiamato ad applicare o interpretare la normativa in questione (in tal senso, cfr. Autorità garante per la concorrenza ed il mercato, parere AS877 del 31 agosto 2011), il sistema prevalente con cui si cambiano le cose resta quindi l’intervento in via di azione o ricorso giurisdizionale, col difetto della natura stocastica ed episodica che è propria di questo strumento (rispetto alle potenzialità “a tappeto” di un corretto impiego della potestà amministrativa, in autotutela o per atti generali).
Ma vi è una seconda, e forse meno scontata, riflessione da compiere: il vero problema non è tanto se si adempie, ma come lo si fa, visto che sul punto si possono dare declinazioni diverse del medesimo principio. Non è un caso che l’articolo 84 del decreto n. 59/2010 contenesse, nei confronti delle leggi regionali, una cosiddetta “clausola di cedevolezza”: da un lato essa prevede che la norma nazionale in materie riservate alla competenza esclusiva dello Stato (specie se applicativa di principi e norme comunitarie) è destinata a prevalere (immediatamente, ovvero dopo l’infruttuosa scadenza del termine di adeguamento), per così dire per “espansione”, sulle eventuali disposizioni regionali contrastanti (Consiglio di Stato, decisione n. 2808/09). Dall’altro lato “va da sé che sia la Regione (…) che il Comune (…) potranno adeguare le proprie disposizioni in materia commerciale a quanto disposto dalla L. 248/06 ed al D.Lg. 59/10; in difetto dovendo dare immediata e diretta applicazione alle disposizioni ivi contenute”: lo si nota in un’accuratissima sentenza 11 marzo 2011, n. 145 della I sezione del T.A.R. Friuli Venezia Giulia (Trieste), secondo cui “la questione, in realtà è un po’ più complessa, in quanto bisognerebbe distinguere i casi in cui le Regioni erano già dotate di norme ad hoc, da quelle che non ne possedevano di proprie: in questo secondo caso, la normativa statale deve ritenersi immediatamente applicabile, almeno sino a quando la Regione non disciplini autonomamente la materia (in conformità alle regole dettate dallo Stato); nel primo caso, invece, va ancora distinta la situazione in cui le norme preesistenti siano in linea con le disposizioni statali sopravvenute (nel qual caso, nulla quaestio), da quelle in cui siano con le stesse contrastanti (come nel presente caso).”
In ordine alla possibilità di normazioni regionali che declinino diversamente il principio di liberalizzazione, senza violarlo, la pronuncia del TAR Trieste sostiene, più avanti, che “le leggi sopravvenute hanno liberalizzato il mercato lasciando alle Regioni e agli Enti locali la possibilità di porre limiti ai nuovi insediamenti commerciali solo se giustificati da ragioni estranee alla limitazione della concorrenza, in altre parole: geografiche, storico-culturali, urbanistiche, architettoniche e – ritiene il Collegio – anche di salvaguardia del tessuto commerciale esistente (ad esempio, negando l’autorizzazione all’apertura di nuovi punti vendita nei centri storici caratterizzati dall’esistenza di attività commerciali tradizionali di piccola dimensione, ma molto diversificate, che si vuole preservare), ma non potrà puramente e semplicemente denegare un’autorizzazione richiamandosi ai non più consentiti contingentamenti”.
Così stando le cose, ricondurre l’intervento di adeguamento regionale entro i diversi ambiti finalistici recati dall’articolo 117, comma 2, lettera e), secondo inciso, Cost., non significa solo consentire l’operatività della clausola di cedevolezza del decreto n. 59 (quindi con caducazione della legislazione regionale difforme dalla direttiva Bolkenstein, in attesa della “riespansione” della competenza legislativa regionale quando esercitata in conformità alla normativa europea). Significa anche non dare per scontato che dalla liberalizzazione procedimentale discenda automaticamente una migliore disciplina della concorrenza: se questo è l’interesse giuridico da conseguire – di per sé bastevole per radicare addirittura una ben più incisiva competenza legislativa esclusiva dello Stato in tema di concorrenza – esso può trovare varie forme di contemperamento, non necessariamente facendo retrocedere sullo sfondo il ruolo regolatorio delle pubbliche amministrazioni ma – piuttosto – accertando caso per caso il punto di caduta dove si soddisfa meglio l’interesse pubblico.
Chi ha interesse a ricondurre la tematica della liberalizzazione in una notte nera in cui tutte le vacche sono nere? Forse un apparato statale che nel “rifare le bucce” al legislatore regionale trovi una nuova vocazione neo-centralistica. In proposito – al di là dello strumento del potere sostitutivo individuato dalla norma con il riferimento all’articolo 120 Cost. – il rischio che declinazioni diverse del principio ricevano trattamenti differenziati, da parte dello Stato, è esaltato dal meccanismo indirettamente sanzionatorio delineato dai periodi del comma 4 successivi al primo. Vi si reintroduce un meccanismo non nuovo, ma evidentemente controverso, visto che la legge di stabilità (legge 12 novembre 2011, n. 183) lo aveva subitaneamente abrogato, ad appena tre mesi dalla sua entrata in vigore: lo prevedeva l’articolo 3, comma 4 del decreto n. 138, che aveva accomunato gli enti territoriali non statali (Regioni, Province, Comuni) nella valutazione di virtuosità di cui all’art. 20, comma 3, del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, nel caso in cui provvedano all’adeguamento al principio di liberalizzazione. Si tratta di una valutazione che incide su meccanismi di premialità aggiuntivi rispetto a quelli previsti dalla normativa vigente per gli enti rispettosi del patto di stabilità interno: per essi, gli enti locali e le regioni che risulteranno collocati nella classe più virtuosa non concorrono, a decorrere dal 2013, né agli obiettivi fissati dall’art. 14, comma 1, del D.L. n. 78/2010, né agli ulteriori obiettivi di finanza pubblica definiti dal comma 5 dell’articolo medesimo.
Ora il meccanismo è di fatto ripristinato, ma con una modalità che comporta una sensibile differenza: una comunicazione della Presidenza del Consiglio – entro il termine perentorio del 31 gennaio di ciascun anno, indirizzata al Ministero dell’economia – in ordine al fatto che un ente abbia provveduto all’applicazione delle procedure di liberalizzazione di cui all’articolo in commento; in difetto, ‟si prescinde” da tale elemento di valutazione della virtuosità. Se l’esistenza dell’elemento è un fatto, allora l’assenza della comunicazione rischia di pregiudicare indebitamente la posizione dell’ente, sottoponendolo alle conseguenze di un errore o di un ritardo informativo dell’organo incaricato di comunicarlo al Ministero dell’economia. Ma se l’esistenza dell’elemento è essa stessa oggetto di apprezzamento valutativo – perché, come si desume dalla citata sentenza del TAR Trieste, è possibile che diverse normazioni regionali declinino diversamente il principio di liberalizzazione, senza violarlo – allora si rientra, a tutta prima, in un caso di vero e proprio “accertamento costitutivo”, perché la comunicazione della Presidenza del Consiglio è elemento integrativo di efficacia della procedura e, in sua assenza, la virtuosità accampata dall’ente non è valutabile dal Ministero. In tale seconda eventualità, lo strumento posto nelle mani della Presidenza del Consiglio comporterebbe un potenziale di “orientamento” delle scelte degli enti locali particolarmente invasivo, non solo per le conseguenze (perdita di un elemento favorevole, ai fini del rientro nel patto di stabilità) ma anche per l’effetto ostativo nei confronti del Dicastero investito della procedura.
Se queste sono le tassative direttrici con cui lo Stato centrale intende “giudicare” gli enti locali (ai fini di escludere il trattamento di sfavore derivante dal non aver conseguito gli obiettivi del patto di stabilità), ci si aspetterebbe analogo rigore verso se stesso. Invece, al comma 3 dell’articolo 1 l’abrogazione – che colpisce tutte le discipline ingiustificatamente compressive della libera iniziativa, ovvero le norme aventi contenuti non adeguati o non proporzionati alle finalità pubbliche perseguite o dichiarate – passa per un nuovo meccanismo di rimozione dall’ordinamento delle norme statali in contrasto coi menzionati principi: si autorizza il Governo ad adottare entro il 31 dicembre 2012 uno o più regolamenti di delegificazione finalizzati ad individuare le attività che necessitano di un preventivo atto di assenso e a disciplinare i requisiti per l’esercizio delle altre attività, nonché i termini e le modalità per l’esercizio dei poteri di controllo ex post da parte dell’amministrazione, secondo i criteri ed i principi direttivi individuati dall’articolo 34 del decreto legge n. 201/2011, convertito in legge n. 214/2011.
La storia di quell’articolo 34 – ma anche quella dell’articolo 3 del decreto n. 138 del 2011 – dimostra che finora non è scattata né la “ghigliottina” che avrebbe dovuto caducare le norme contrastanti con le liberalizzazioni, né l’effetto abrogativo derivante dall’entrata in vigore dei regolamenti alla cui emanazione il Governo era stato in precedenza autorizzato. Se lo Stato non è stato sin qui in grado di mantenere l’impegno, come può poi pretendere di imporlo agli altri enti territoriali? Viene da credere che tutte le sfumature di grigio possono essere colte, quando le vacche notturne sono nel recinto delle amministrazioni statali…
Se poi si considera che i cittadini sarebbero non il terzo incomodo, nel rapporto Stato-regioni, ma i destinatari ultimi delle norme pro-concorrenziali, allora ci si potrebbe utilmente chiedere quante altre previsioni possono ancora essere adottate a loro tutela. La concorrenza non dovrebbe essere una situazione di anomìa, ma un’opportunità per tutti di goderne gli effetti benefici come consumatori e come cittadini: lo sbocco deve essere non l’abulica fiducia nelle forze del mercato, ma la possibilità per il pubblico di spendere una parola subito, senza opacità amministrative ma sotto forma di una pubblica consultazione. La valutazione di impatto ambientale e quella strategia, per le grandi opere, sono sicuramente una di queste sedi. Ma non si deve neppure sottovalutare lo strumento giurisdizionale. In proposito, la decisione 29 luglio 2011 n. 15 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha affermato che “la denuncia di inizio attività (sostituita dalla Scia) non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita, ma è un atto privato volto a comunicare l’intenzione di intraprendere un’attività direttamente ammessa dalla legge”; con la Dia/SCIA, il denunciante è «titolare di una posizione soggettiva di vantaggio immediatamente riconosciuta dall’ordinamento, che lo abilita a realizzare direttamente il proprio interesse, previa instaurazione di una relazione con la pubblica amministrazione, ossia un contatto amministrativo, mediante l’inoltro dell’informativa».
Il Consiglio di Stato aggiungeva, però, che «anche per gli interessi legittimi, come pacificamente ritenuto nel processo civile per i diritti soggettivi, la garanzia costituzionale impone di riconoscere l’esperibilità dell’azione di accertamento autonomo, con particolare riguardo a tutti i casi in cui, mancando il provvedimento da impugnare, una simile azione risulti indispensabile per la soddisfazione concreta della pretesa sostanziale del ricorrente». Disattendendo questa parte della pronuncia – secondo cui il terzo pregiudicato dallo svolgimento dell’attività «è titolare di una posizione qualificabile come interesse pretensivo all’esercizio del potere di verifica» – il Legislatore statale, nel recentissimo passato, ha spostato in avanti il momento del ricorso del terzo interessato, imponendogli di impugnare il silenzio (articolo 6 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138). Come si può propugnare un modello liberalizzatorio – e “sponsorizzarlo” per le regioni – se non si attrezzano i cittadini a denunciare subito il caso concreto di “abuso del diritto”? È sì vero che l’attività economica costituisce esercizio di una libertà costituzionalmente garantita, anche se non persegua fini di utilità sociale o non miri allo sviluppo della libertà, della sicurezza o della dignità umana: ma è anche vero che, per l’articolo 41 comma 2 Cost., “essa non deve operare in contrasto con tali valori” (v. Alessandro Pace, L’iniziativa economica privata come diritto di libertà: implicazioni teoriche e pratiche, in Studi in memoria di Franco Piga, Milano, 1992, vol. II, pp. 1622-1623; più di recente, Stefano Rodotà, Semplificare senza sacrifici, su la Repubblica, 23 gennaio 2012).
Senato della Repubblica, parere approvato dalla Commissione Giustizia sul Ddl 3110, conversione in legge del Dl 1/2012, recante disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività,