Nell’agosto del 2014, sulla montagna di voti guadagnati alle elezioni europee di quell’anno, Matteo Renzi – in corsa solitaria in testa al gruppo – ottiene dai tacchini l’anticipo del Natale: il Senato vota la riduzione dei suoi seggi ed elimina l’elettività. Nel nuovo articolo 57 della Costituzione (articolo 2 del disegno di legge costituzionale Boschi), i numeri di palazzo Madama passano da 315 a cento, dei quali cinque a vita e novantacinque “indirettamente elettivi”: il secondo comma prevede che sarebbero eletti dai consigli regionali (e provinciali di Trento e Bolzano), 74 nel loro seno e 21 tra i sindaci del loro territorio.
La Camera dei deputati, al termine della sua lettura il 10 marzo scorso, conferma la scelta già fatta in prima lettura del Senato: i primi due commi del nuovo articolo 57, nel nuovo stampato del Senato (redatto come disegno di legge n. 1429-B, perché in altre parti la Camera ha introdotto modifiche) recano la semplice parola “identico” nella colonna di destra.
Questa cosa, nel linguaggio parlamentare, significa da sempre una cosa ben precisa: su questi commi si è già consumato il potere di legiferare delle due Camere, per cui non saranno più ammessi voti e, men che meno, emendamenti modificativi, aggiuntivi o soppressivi. In altri termini, su queste unità testuali la “navetta” si è chiusa: lo scambio dei consensi tra i due “contraenti” intercamerali si è avverato, ed il testo sarà esaminato solo nelle parti modificate e solo sugli emendamenti che “si trovino in diretta correlazione con gli emendamenti introdotti dalla Camera dei deputati” (articolo 104 del Regolamento del Senato).
In altri termini, il 10 marzo 2015 il Senato elettivo è morto: o si respinge tutta la riforma Boschi, o i senatori saranno solo dei nominati.
Secondo fotogramma: elezioni amministrative un po’ meno buone, Matteo Renzi scopre di dover lisciare la minoranza del PD dalla parte del pelo (almeno fino a quando Verdini non garantisca un numero adeguato di “soccorso azzurro”). Una delle richieste che riceve è il ripristino dell’elettività del Senato. Come fare?
Ricominciare la navetta no, manco a parlarne: un nuovo disegno di legge? E chi glielo dice ad Angela Merkel, che si è detta “impressionata” appena due mesi fa del ritmo veloce e dei contenuti gagliardi delle riforme costituzionali italiane?
No, molto meglio trovare il garbuglio: se si riesce a “dilatare” la navetta, forse si quadra il cerchio….
Il forcipe, manco a dirlo, lo trovano i legulei che non mancano mai di prosperare nel sottobosco governativo: si scopre che nello stesso articolo 57, in doppia colonna, c’è un unico comma che non reca la parola “identico”. La Camera, in un punto, ha modificato il testo del Senato!
Il quinto comma del nuovo articolo 57, per il Senato d’agosto 2014, recitava: ” La durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali nei quali sono stati eletti.” Il quinto comma del nuovo articolo 57, per la Camera del marzo 2015, recita invece: ” La durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti.” Questo basta, sia alla presidente Finocchiaro in relazione, sia addirittura al presidente Grasso alla cerimonia del Ventaglio, per ravvisare una contraddizione con il nuovo articolo 66 della Costituzione: secondo il secondo comma introdotto dalla Camera, «Il Senato della Repubblica prende atto della cessazione dalla carica elettiva regionale o locale e della conseguente decadenza da senatore».
Pertanto, “ragionano” i predetti, c’è un errore da rimediare: il Senato nel 2014 voleva che i 21 sindaci rimanessero in carica per la durata del rispettivo consiglio comunale, anche se il consiglio regionale che li avesse eletti non fosse più il medesimo (causa rinnovo); la Camera del 2015 vuole che i 21 sindaci durino quanto il consiglio regionale che li elegge, eppure la causa decadenziale dell’articolo 66 presuppone “che la durata della carica coincida con quella che il senatore contestualmente ricopre a livello locale” (relazione Finocchiaro, prima commissione Senato, 7 luglio 2015).
La logica binaria del paralogismo è, visibilmente, fallace: c’è una terza lettura che mette insieme le due norme (del nuovo quinto comma dell’articolo 57 e del nuovo secondo comma dell’articolo 66) ed è, semplicemente, che il sindaco eletto dal consiglio regionale per andare in Senato duri nella carica di senatore fino a quando durano i suoi elettori, a meno che non perda la carica di sindaco per vicende del comune di appartenenza. Le cause di ineleggibilità sopravvenuta sono una categoria antica e, in epoca statutaria, in Parlamento si trasformavano in cause di decadenza, né più né meno di quanto avviene al giorno d’oggi in Paesi a noi vicini, come la Francia.
Ma se si gratta sotto la crosta (invero assai sottile) dello pseudo-argomento, si scopre ben di peggio: la differenza “nei/dai” – tra le due letture dell’articolo 56 (per il resto del tutto identico tra agosto e marzo) – giustificherebbe non già un coordinamento tra norma di durata e norma di decadenza (articolo 66), ma un più generale “rimpasto” della norma, con rimodulazione della questione dell’elettività mediante una “riapertura della navetta”. Un listino nell’elezione dei consiglieri regionali “segnalerebbe” all’elettore chi – se eletto al consiglio – transiterebbe al Senato; oppure, chissà, si farebbe capo al miglior quoziente, o ad una seconda scheda, e l’elezione indiretta che è tuttora prevista nel secondo comma (“identico”, si ripete) sarebbe da intendersi “a rime obbligate” o sotto dettatura dell’elettorato regionale. Con quali problemi, in caso di difformità delle decisioni del consiglio regionale, è facile immaginare.
La morale della vicenda è un po’ deprimente: quando la semantica non è sentita come un vincolo dal Legislatore, anche la logica comincia a barcollare. Quando si può dire “la qualunque”, si esalta solo il ruolo di gran sacerdoti delle procedure, che affascinano gli interlocutori con giaculatorie per iniziati: un mandariname che ripete ovvietà, mezze verità o vera e propria fuffa con l’autorevolezza del competente in una materia ostica e lontana, cui tutti danno credito.
Quel che è peggio e che, con lo stesso metodo, anche i contraddittori peccano di analogo “complesso della Pizia”: su radio radicale, il 29 luglio 2015, l’onorevole Giachetti ha commentato acidamente che sulla navetta “ci sono altri funzionari che la pensano diversamente dai funzionari del Senato” (come se Grasso e Finocchiaro o avessero dato fiato alla pancia di un’amministrazione che vuole sopravvivere, o all’inverso avessero “istruito” la dirigenza amministrativa a trovare gli argomenti “giusti”). A parte la caduta di stile della battuta (che viene da un vice Presidente dell’altra Camera, oltre che da un colonnello renziano), le procedure non si prestano molto alla risposta di Pier capponi “e noi suoneremo le nostre campane”. Se non se ne ricerca la ragione profonda, la legittimazione nella teoria democratica e dello Stato di diritto, qualsiasi istituto giuridico può apparire pieghevole e girevole a 360 gradi.
Non è un caso che, nella sua audizione proprio del 27 luglio scorso dinanzi alla medesima prima Commissione del Senato, l’avvocato Besostri abbia inteso smitizzare la sacralità della navetta citando un precedente del 2004, in cui – nonostante le proteste dell’allora senatore Manzione – la presidenza Pera ammise al voto un emendamento modificativo di un testo, già votato da Senato e Camera nella stessa, identica versione. Nell’audizione del giorno dopo, un docente che è stato nei ruoli della Camera, il professor Lippolis, ha ricordato che l’articolo 104 del regolamento si basa, come tutte le regole parlamentari non riflettenti un imperativo costituzionale, sul nemine contradicente, per cui le Presidenze per funzionalità dei lavori possono decidere di derogarvi. Il professor Villone ha ricordato che nel maggio 1993 fu la Giunta del Regolamento della Camera ad autorizzare il presidente Napolitano ad interpretare in modo flessibile la navetta; il mese dopo Spadolini fu ancor più generoso: il professor Pio Marconi, sull’Avantionline, ha scritto che forse anche questa flessibilità consentì – in un momento di passaggio istituzionale turbolento, con Tangentopoli che impazzava – di approvare la revisione dell’articolo 68 della Costituzione.
L’avvocato Besostri, nella sua memoria, è stato il più completo, nel sostenere come l’articolo 138 della Costituzione sia stato interpretato riduttivamente: per il colui che ha vittoriosamente abbattuto il Porcellum, le norme regolamentari – “strozzando” la discussione nella seconda lettura ed applicando rigidamente la navetta delle leggi ordinarie nella prima – andarono oltre la sua lettera ed il suo spirito: sul Manifesto ha convenuto il 31 luglio il professor Azzariti. Infine, il presidente emerito della Corte costituzionale, Enzo Cheli, sostenne – sul Sole 24 ore già nello scorso aprile – che non vi erano seri motivi contro l’allargamento della navetta, in un tema così delicato come la revisione della Costituzione: essa – proprio perché non condotta con la pacatezza di un’Assemblea costituente – deve sollevarsi al di sopra della contingenza politica e correggere liberamente le scelte che si rivelassero, ad una nuova riflessione, insostenibili.
Insomma, se si guarda al di sopra del naso, si scopre che – in luogo del pertugio aperto da una minima difformità da un “nei” a un “dai” – vi sono altri e più nobili motivi, per ripensare liberamente all’impianto della Costituzione a venire. Se il professor Cheli l’ha scritto ad aprile e Renzi sen’è accorto dopo la scoppola elettorale a giugno inoltrato, è forse la riprova che ci sono delle differenze in tutte le cose….