Crisi, licenziamenti e cassaintegrazione non fermano gli incidenti mortali sul lavoro che nel 2012 sono stati 509. Un dato drammatico che ci dice come ogni giorno, nel nostro Paese, c’è un lavoratore che perde la vita mentre per paradosso si guadagna da vivere.
I numeri sono stati diffusi da una ricerca dell’osservatorio sicurezza sul lavoro di Vega Engineering, una società di ingegneria che offre servizi negli ambiti della salute e sicurezza nel lavoro, che ha raccolto ed elaborato i dati relativi agli incidenti mortali sul lavoro del triennio 2010-2012 durante il quale hanno perso la vita più di 1.500 lavoratori. Quello che ne emerge è un quadro sconfortante che non è cambiato neanche con il sopravvenire della crisi.
«Rispetto al 2011 – spiega Federico Maritan, direttore dell’osservatorio – il 2012 vede effettivamente una riduzione degli incidenti mortali (-8%) ma la flessione va attribuita al significativo calo dell’occupazione determinato dalla crisi. Insomma gli incidenti diminuiscono perché sostanzialmente diminuiscono gli occupati».
Dietro questi numeri nefasti, dietro le statistiche, ci sono storie di persone, di famiglie distrutte, smembrate da ciò che in realtà avrebbe dovuto rappresentare per loro un mezzo di sussistenza: il lavoro.
Si muore soprattutto nei campi (35% dei casi) e nei cantieri edili (23,6%) che si rivelano luoghi in cui anche una piccola distrazione può essere fatale.
Nemici di contadini e operai sono la distrazione, il calo di prestanza fisica (non a caso l’incidenza maggiore si verifica nella fascia di età degli over 65), l’impiego di attrezzi e macchinari da lavoro inadeguati, un’inappropriata formazione al lavoro ma soprattutto il non rispetto delle più basilari norme di sicurezza.
Tutte pessime abitudini cristallizzate negli anni che ci hanno abituato, purtroppo, a non stupirci più e a non gridare (come dovremmo) allo scandalo ogni volta che osserviamo dei muratori, ad esempio, sospesi a decine di metri di altezza senza essere assicurati ad alcuna corda e senza il casco protettivo.
«Le principali cause di mortalità sul lavoro – continua Maritan –sono sempre quelle. Nei cantieri si muore soprattutto perché si cade dai ponteggi. Mentre sui campi, per ribaltamento di un veicolo in movimento come un trattore».
La caduta dall’alto, secondo il rapporto di Vega Engineering, rappresenta la principale causa di morte in assoluto sul luogo di lavoro e riguarda mediamente un quarto del totale dei casi. In pratica un decesso su quattro. Nel 20% dei casi, invece, la causa è lo schiacciamento sotto il peso di un veicolo da lavoro che si stava guidando.
«Questo accade soprattutto in campagna – continua Maritan – dove le famiglie conservano, per esempio, trattori molto vecchi e privi dei più basilari accorgimenti di sicurezza come ad esempio, la previsione di un abitacolo che in caso di ribaltamento della macchina protegge l’uomo alla guida dall’inevitabile schiacciamento».
Ribaltamento di un veicolo o lo schiacciamento causato dalla caduta di gravi, determinano infortuni letali anche nel commercio che è il terzo interessato dalle morti bianche con il 9,3% del totale dei decessi nel 2012 (elevato al 13,4% nel 2011). Riguarda soprattutto il settore dell’ingrosso, dove cioè si ha a che fare con macchinari per la movimentazione delle merci come muletti o carrelli elevatori.
I rischi al Sud e sulle montagne
«Il rapporto – precisa Maritan – prende in considerazione tutti gli incidenti mortali avvenuti in Italia nel triennio. Non solo quelli che capitano ai lavoratori assicurati che normalmente vengono monitorati da Inail, ma anche quelli assunti in nero, ad esempio, oppure ai singoli privati che lavorano nei propri campi durante il week end. Non abbiamo invece preso in considerazione gli incidenti sul lavoro che capitano durante la circolazione stradale. In tal caso occorrerebbe aggiungere altri 500 decessi ogni anno».
Sono soprattutto le regioni del Sud quelle che registrano una maggiore frequenza di infortuni fatali con un’incidenza sul totale degli occupati di 26,9 contro il 26,2 del Nord-Est, il 26,1 delle isole, il 23,3 del centro e il 18,5 del Nord-Ovest.
Tuttavia nella classifica su base regionale ai primi posti ci sono l’Abruzzo seguito dal Trentino Alto Adige e dalla Val d’Aosta.
Se la forbice tra Nord e Sud dipende da una maggiore adeguatezza delle misure di sicurezza negli ambienti di lavoro situati nelle zone più industrializzate del Paese, le due regioni di confine sono così rischiose anche a causa della particolare conformazione del territorio. «Si tratta di regioni montane – fanno sapere dall’osservatorio di Vega Engineering – ed i terreni scoscesi si prestano maggiormente ad incidenti relativi, ad esempio, al ribaltamento dei veicoli».
Per queste 1.500 persone morte sul lavoro non sono stati sufficienti i controlli preventivi disposti ogni anno dalle Asl che servono a verificare la corretta applicazione, da parte degli imprenditori, delle norme sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Circa 2mila quelli effettuati nel 2012 hanno determinato 800 multati in tutt’Italia per un totale complessivo di sanzioni di 1,5 milioni di euro. Ai controlli, che attengono ad una fase di prevenzione dell’infortunio, occorrerebbero iniziative in grado di affiancare le famiglie che subiscono la perdita di un padre, un figlio, un fratello.
«Servono – spiega Angelo Piovanelli, presidente dell’Anmil di Brescia, Associazione provinciale mutilati e invalidi del lavoro, dove si registra, il maggior numero di incidenti mortali di tutto il Paese (18 nel 2011 e 19 nel 2012) – una riforma dell’Isee, una diversa tutela sanitaria, l’abbassamento del grado di invalidità indennizzabile dal 16 all’un per cento, interventi per l’eliminazione delle barriere architettoniche. Tutte cose per le quali auspichiamo una risposta dal ministero mentre ai Comuni si chiede di segnalare le situazioni di pericolo e di collaborare alla sorveglianza e, infine, ai medici di non sottovalutare le patologie derivate dal luogo di occupazione».