Il “Rivoltoso Sconosciuto” o “Tank Man”. Questo è il soprannome del ragazzo cinese anonimo divenuto famoso in tutto il mondo per essersi parato, da solo e disarmato, davanti a una colonna di carri armati del Governo Cinese nel tentativo di fermare il loro ingresso in piazza Tian’anmen a Pechino il 4 giugno del 1989. La foto che lo ritrae in piedi davanti ai carri armati ha fatto il giro del mondo ed è diventata per molti un simbolo di lotta contro la tirannia. In realtà osservandola con attenzione si nota che i coraggiosi in questa fotografia sono due: lo studente che rischiò la vita piazzandosi davanti al cingolato e il pilota che si rifiutò di falciare il connazionale.
Ventitré anni fa, il 4 giugno 1989, intorno alle 5 del mattino, i carri armati cinesi entrarono in piazza Tian’anmen, a Pechino. L’Esercito Popolare di Liberazione, eseguendo un ordine venuto da Deng Xiaoping, sgomberò la piazza, che a partire dal 15 aprile era stata occupata da migliaia di studenti che chiedevano democrazia, riforme, giustizia sociale e lotta alla corruzione. Fu una carneficina. Centinaia di manifestanti furono uccisi e diverse migliaia rimasero ferite.
Il massacro di Tian’anmen è a tutt’oggi negato dal Governo di Pechino che impedisce discussioni pubbliche a riguardo. Molti cinesi coraggiosi hanno provato a denunciare quanto avvenuto durante quella tragica notte chiedendo giustizia per le vittime, ma così facendo hanno perso il lavoro oppure sono stati arrestati. Lo scorso 26 maggio Ya Weilin, padre di un manifestante ucciso a 22 anni, ridotto alla disperazione dall’indifferenza e dagli anni di silenzio che le autorità si ostinano a mantenere su uno dei capitoli più tristi della storia, si è tolto la vita impiccandosi.
Un esercito di dissidenti
Il Governo cinese non tollera critiche e continua a usare il pugno di ferro. Il 4 giugno scorso è stato vietato qualsiasi evento commemorativo o manifestazione, tutti gli attivisti e i dissidenti che hanno osato disobbedire agli ordini impartiti sono stati messi agli arresti domiciliari o costretti a lasciare la città. Tuttavia, nella stessa giornata, a Parigi, Hong Kong, Londra, New York e in altre importanti città di tutto il mondo migliaia di manifestanti si sono incontrati per ricordare, per protestare e per chiedere che sia posta fine alla persecuzione. Tra i dissidenti figurano il Premio Nobel per la Letteratura del 2000 Gao Xingjian, il Premio Nobel per la Pace del 2010 Liu Xiaobo e numerosi scrittori e intellettuali. Tra le persone la cui libertà di movimento è stata limitata c’è anche il Premio Nobel per la Pace 2003, Ding Zilin, madre di Jiang Jielin, una delle prime vittime di quel drammatico 4 giugno, ucciso a soli 17 anni. Dopo la morte del figlio, Ding Zilin ha tentato sei volte il suicidio ma poi attraverso il sostegno delle altre famiglie colpite dal suo stesso lutto è riuscita a reagire e ha fondato il gruppo delle Madri di Tian’anmen (www.tiananmenmother.org), un’organizzazione non governativa che mira a far luce sui fatti del 1989 e che invoca la riabilitazione del movimento del 4 giugno da parte del Governo.
I numeri negati
Le autorità cinesi si rifiutano di dire quante siano state le vittime e di identificarle ma le Madri di Tian’anmen ne hanno già individuate 120, 120 persone uccise a sangue freddo perché colpevoli di aver preso parte a un moto definito dai leader “controrivoluzionario”. Secondo una stima pubblicata dal Governo provinciale dell’Hunan si aggira intorno a 1602 il numero delle persone giudicate colpevoli e condannate alla prigionia e ai lavori forzati per aver partecipato alle proteste della primavera del 1989 a Pechino e in altre parti della Cina. In un documento diffuso recentemente dall’organizzazione umanitaria Dui Hua, si legge che le persone ancora detenute per condanne legate ai fatti dell’89 sarebbero “meno di una dozzina”. La Dui Hua indica i nomi di Jiang Yaqun, 73 anni, e Miao Deshun, 48 anni, entrambi trasferiti, rispettivamente nel 1993 e nel 2003, nella “Yanqing Prison” di Pechino per disturbi mentali. La “Yanqing Prison” è infatti un laogai specializzato nell’ospitare detenuti “vecchi, malati e con handicap” e comprende due miniere dove si producono mattoni, ferro e acciaio. Jiang è stato condannato per “sabotaggio controrivoluzionario”, reato che nel corso degli anni è stato abolito, mentre Miao per “vandalismo”. Entrambi sono stati condannati a morte con una “sospensione” di due anni. Successivamente Jiang ha avuto altre tre riduzioni di pena e ora il suo rilascio è previsto per il 23 ottobre 2013. La condizione di Miao appare invece più compromessa: condannato a morte per incendio doloso, la pena è stata commutata in ergastolo nel 1991 e ridotta a 20 anni nel 1998, per cui il suo rilascio è previsto per il 15 settembre 2018. Nel suo comunicato, la Dui Hua aggiunge i nomi di Chen Yong, condannato all’ergastolo per “assalto controrivoluzionario” e detenuto nel laogai “Qincheng Prison” di Pechino; Luan Jikui, anch’egli detenuto nella “Qincheng Prison”, condannato a morte con due anni di sospensione della pena per “incendio doloso”, in seguito commutata in ergastolo; Deng Wenbin, condannato all’ergastolo e detenuto in un laogai nella provincia dell’Hubei; Sun Guanghu condannato all’ergastolo e detenuto in una prigione dello Shaanxi; Yu Rong, condannato per “propaganda controrivoluzionaria e incitamento alla sovversione” e inizialmente recluso in un laogai a Shanghai; in seguito, nel 1990, gli fu diagnosticata una “malattia mentale” e fu trasferito in un “Ankang Asylum”. “Ankang 安康” in cinese significa “pace e salute (per i malati mentali)” infatti gli Ankang Asylum o Hospital sono degli speciali ospedali psichiatrici amministrati dalla polizia, se ne contano 22 in Cina tutti aventi la duplice funzione di fornire “trattamenti medici” e soprattutto mantenere l’ordine sociale essendo parte integrante dei servizi di sicurezza pubblica. Il Direttore esecutivo della Dui Hua, John Kamn, si è dichiarato fiducioso nella lotta per i diritti umani, un segnale positivo è giunto i primi di maggio con il rilascio di Li Yujun, condannato a morte con due anni di sospensione della pena per “incendio doloso”, accusato di aver dato fuoco a un veicolo militare nella resistenza all’occupazione militare di Pechino. Come solitamente avviene nel caso di sentenze di morte con due anni di sospensione la condanna di Li è stata commutata in ergastolo nel 1993 e in seguito fissata a 20 anni nel 1996, ulteriori riduzioni gli sono state poi concesse per buona condotta finché i primi del mese scorso è uscito dalla “Number Two Prison” di Pechino. Tuttavia il fatto che Li sia ora fuori di prigione non significa che sia un uomo libero. Lo attendono 8 anni di privazione dei diritti politici, sentenza che implica stretta sorveglianza, restrizioni e divieto di rilasciare interviste, pubblicare articoli e votare. Inoltre a seguito degli anni di prigionia ha riportato gravi disturbi mentali.
Il portavoce del Dipartimento di Stato americano, Mark Toner, ha reso pubblico un messaggio in cui invita la Cina a fornire un resoconto degli avvenimenti del 1989, il numero preciso delle vittime, dei feriti, delle persone “scomparse” e il rilascio dei detenuti catturati quella notte. Chiaramente la Cina non ha accolto di buon grado l’appello e il Ministro degli esteri si è dichiarato fortemente infastidito da un simile atteggiamento.
Internet e la censura delle candele
Proprio come se una pagina di storia fosse stata strappata, i riferimenti al 4 giugno sono stati filtrati dalla censura e tutti i siti di microblogging che evocavano l’evento sono stati oscurati. Inserendo una lunga lista di parole chiave, per esempio “4 giugno”, “1989”, “23”, “Anniversario”, “Tian’anmen”, o “ricordare” sui social network cinesi è impossibile ottenere risultati. Su Sina Weibo, -il Twitter cinese- persino l’emoticon raffigurante una candela è tabù e scompare con velocità repentina dagli account degli utenti che vogliono accendere una candela virtuale alle vittime. Bandita dal web anche l’espressione “vestirsi di nero”, diffusasi alla vigilia dell’anniversario in segno di lutto. Secondo il South China Morning Post di Hong Kong, le stesse autorità locali hanno definito le misure adottate da “tempo di guerra”.
Sono in molti ora a riporre la propria fiducia nel Presidente Wen Jiabao e nelle sue riforme liberali e democratiche. Ma è chiaro che la democrazia cinese è solo una facciata, i leader cinesi sono in realtà sospettosi e diffidenti nei confronti della democrazia perché intacca i loro interessi economici. Sembra che Wen Jiabao abbia menzionato la necessità della riabilitazione del movimento del 4 giugno, tuttavia la forza di una sola persona non è sufficiente, occorre il consenso di tutto il Partito. “讳疾忌医Huiyi jiyi” cita un antico proverbio cinese ovvero “evitare il medico per paura della malattia”, nascondere le proprie debolezze per paura delle critiche e delle conseguenze: è questo l’atteggiamento adottato dal Governo cinese sulle vicende del 4 giugno che agli del mondo non lo esime però dalle proprie responsabilità.