Il nuovo governo, tra polemiche e precoci minacce di sfiducia, si è finalmente insediato a palazzo Chigi ed ora gli italiani si aspettano, se non altro, almeno un barlume di linea politica.
Chiedere nell’immediato misure concrete per contrastare l’impoverimento generale della nostra economia sembra addirittura esagerato, ma è lecito attendersi delle risposte incoraggianti su alcuni temi critici. L’impressione, tuttavia, è che difficilmente il Paese uscirà dall’impasse dialettica su due questioni che catalizzano l’attenzione ormai da troppo tempo: la giustizia, con particolare riguardo a processi specifici; l’IMU, tassa considerata “sostenibile” fino a due anni fa ma che ora rappresenta il mostro da combattere. La focalizzazione del dibattito sta determinando la caduta di un’enorme velo mediatico in merito a faccende ben più urgenti, per cui la non-azione da parte di questo governo non farà altro che acuire i sentimenti anti-istituzionali che aleggiano ormai senza limiti.
Tralasciando volontariamente il discorso sulla giustizia, i cui evidenti malfunzionamenti non sono certo il primo problema degli italiani, occorre che l’esecutivo si concentri non tanto su una riduzione generica del carico fiscale, di cui peraltro l’IMU è solo la punta dell’iceberg, quanto piuttosto sulla reale capacità dei cittadini di pagare le tasse. In altre parole, il vero nodo da sciogliere riguarda la capacità contributiva, che gli italiani dovrebbero maturare attraverso il lavoro. Eliminare o rimodulare l’IMU potrà anche essere fattibile in termini di finanze pubbliche, racimolando qualche miliardo di euro attraverso tagli e piccoli aumenti su altre imposte, ma non risolve certo l’opprimente avanzamento della disoccupazione all’interno del nostro sistema economico. La mancanza cronica di lavoro genera problemi che travalicano la mera condizione economica, fatta di consumi ed entrate fiscali, e che sfociano in ambiti sensibili come quello sociale e familiare, come dimostra l’aumento di gesti estremi nel nostro Paese.
A suscitare preoccupazione ed incredulità è l’assoluta noncuranza con cui la classe politica italiana osserva questo declino occupazionale. Da diversi anni ormai i dati mostrano uno scenario impietoso: ogni rapporto di qualunque istituzione, nazionale ed internazionale, ci rammenta come il lavoro in Italia stia diventando raro e malpagato, mentre le imprese nostrane falliscono oppure trasferiscono gran parte della produzione all’estero. Il “lavoro al centro” rimane semplicemente un tema da campagna elettorale, mentre i governi sono presi da tutt’altro. L’IMU, per citare di nuovo la bestia nera dei nostri giorni, preoccupa chi una casa ce l’ha, o magari chi ne ha più di una, ma una classe politica lungimirante dovrebbe preoccuparsi di intere generazioni che una casa, alle attuali condizioni, non potranno comprarla mai.
Un esecutivo, inoltre, dovrebbe prestare maggiore attenzione ai dati sull’emigrazione, chiedendosi come mai lo scorso anno circa 42mila italiani, in larga parte giovani laureati, si sono trasferiti in Germania, segnando un +40% rispetto all’anno precedente ed il record dal 1995. La spiegazione del fenomeno è tanto semplice quanto disarmante: la disoccupazione giovanile ha raggiunto un picco del 35% e gli stipendi in termini reali per i nuovi assunti sono tra i più bassi d’Europa. I nostri giovani, cresciuti nella certezza ormai ampiamente compromessa che l’impegno nello studio e nella formazione avrebbe portato alla sicurezza economica e sociale, non possono accontentarsi di lavorare (forse) a condizioni che sfiorano l’umiliazione, malpagati e costretti a dipendere dai genitori. Emblema di questa sfiducia generale è il calo storico registrato nelle iscrizioni universitarie, mai così basse da vent’anni a questa parte. Un Paese che non crede nell’istruzione non può che regredire e non sarà certo l’eliminazione dell’IMU ad invertire questa tendenza. Per correggere questa anomalia serve una concentrazione di intenti, un intervento radicale che possa scardinare un sistema perverso, frutto di errori del passato e comportamenti atavici.
Il tentativo ultimo, rappresentato dalla riforma Fornero, può essere tranquillamente archiviato come un fallimento, non avendo determinato alcuna inversione di rotta nonostante i presupposti in parte condivisibili. L’introduzione del contratto di apprendistato, in sostituzione di soluzioni ambigue di lavoro temporaneo, non è stato recepito dalla gran parte dei datori, perché troppo costoso e vincolante. Il meccanismo di assunzione automatica dopo un certo numero di contratti a tempo è risultato altresì fuorviante, portando nella maggioranza dei casi al mancato rinnovo e quindi ad una riduzione sistematica delle assunzioni. Anche in termini di inserimento, il blocco dei tirocini a titolo gratuito nella P.A. ha semplicemente causato la cancellazione di molti programmi prestigiosi, estremamente utili per dar vita ad un curriculum concorrenziale. Anche la riforma dell’articolo 18, perseguita nel nome di una maggiore flessibilità, si è rivelata inoperosa, poiché i costi per le nuove assunzioni, a fronte dei licenziamenti, sono rimasti invariati.
Proprio l’ultimo punto citato merita un approfondimento particolare, poiché rappresenta il nocciolo della questione, ossia il collegamento tra incentivi al lavoro ed entrate fiscali. Negli ultimi vent’anni, infatti, tutti i governi hanno proclamato l’abbattimento delle tasse sul lavoro, attraverso un intervento sul cosiddetto “cuneo fiscale”, ma alla fine dei giochi nulla è stato fatto: la crisi economica ha semplicemente esasperato questo aspetto, poiché per un azienda i costi di un neoassunto superano quasi sempre i benefici in termini di produttività. Il motivo di tale non-scelta è palese: le tasse da lavoro dipendente pesano sul bilancio dello Stato in modo enorme, per cui anche un taglio minimo richiede una copertura adeguata, che difficilmente si trova senza una ristrutturazione dell’intera macchina pubblica. L’impatto mediatico, inoltre, è notevolmente inferiore rispetto ad una tassa sulla proprietà come l’IMU, che incide non sulle ritenute ma sulla proprietà.
Un’altra misura correttiva su cui il governo dovrebbe interrogarsi è l’introduzione del salario minimo, utilizzato in sostanza da tutti i paesi dell’Europa occidentale. Garantire una retribuzione equa, magari correlata al livello di esperienza ed alla mansione, potrebbe porre un freno alla concorrenza al ribasso che oggi dilaga nel mercato del lavoro. Occorre trovare un meccanismo in grado di contrastare la tendenza, tutta italiana, che porta i giovani lavoratori, spesso qualificati, ad accettare qualunque tipo di condizione economica pur di lavorare. Tale situazione è resa possibile dalla predisposizione media a rimanere in casa per lungo tempo, non solo durante gli studi ma anche oltre, “stipendiati” dalle famiglie che dispongo tuttora di una discreta ricchezza. Questa bolla, tuttavia, si sta rapidamente sgonfiando man mano che i piccoli patrimoni si vanno esaurendo, perdendosi nei consumi quotidiani invece che in investimenti e risparmi. Il giorno in cui un governo porrà sul tavolo tali questioni, ci sarà la speranza di poter tornare a competere con i paesi più avanzati: alla luce del dibattito odierno, questo giorno sembra sempre più lontano.