Da molti, troppi anni il primo maggio non è più una festa. Si tratta piuttosto di un rituale politico dalle mille sfaccettature, tra cui a dominare sono sentimenti quali la preoccupazione, la rassegnazione e, soprattutto, l’insoddisfazione.
Perché il problema del lavoro, che appunto è un “problema” piuttosto che un’opportunità o un diritto, si è ormai esteso ad una fetta incredibilmente ampia di cittadini.
Ad esprimere un motivato malcontento, per usare un eufemismo, non sono “solamente” i disoccupati o i cassaintegrati, categorie dalle quali è lecito aspettarsi un legittimo sfogo, ma anche e soprattutto la pletora di quanti, nonostante abbiano un lavoro, non riescono ad intravedere una qualche sicurezza sul futuro.
La grande massa dei precari, di chi si arrabatta in qualche modo, continua a crescere senza essere rilevata da alcuna statistica ed è questo, forse, il vero nodo della questione lavoro: le generazioni di insoddisfatti e frustrati che, in poche parole, manifestano impotenza di fronte alle politiche miopi da cui sono stati generati.
I dati che affiorano dalla giungla mediatica sono molteplici e differenziati, per cui occorre attenersi a quelli più collaudati se si vuol capire cosa accade nel nostro paese e, più in generale, nel resto d’Europa.
Gli ultimi rilevamenti Eurostat (marzo 2014) mostrano il consueto aumento del tasso di disoccupazione in Italia, salito al 12,7%, in crescita rispetto ad un anno fa (+0,7%). La media dell’area Euro, invece, registra finalmente un calo, attestandosi al 11,8%, mentre nei 28 paesi dell’Unione la media è al 10,5%.
Ci muoviamo dunque in controtendenza, d’altronde non è una novità, ma ciò che preoccupa è ancora la disoccupazione giovanile (under 25), che da noi supera il 30% mentre in Europa è al 23%.
Non siamo certo ai livelli greci o spagnoli, che se la passano molto peggio di noi, ma è una magra consolazione, specie alla luce di ciò che questi numeri non dicono. I disoccupati, infatti, sono quelli iscritti nei centri dell’impiego oppure quelli che hanno perso il lavoro, di cui insomma è possibile tracciare la posizione di mercato.
Esiste, tuttavia, un numero imprecisato di soggetti che non sono iscritti in nessun registro, oppure che hanno lavorato per un breve periodo, anche per pochi euro, di cui non c’è traccia in questi dati. Un discorso simile vale per i giovani sotto i 25 anni, di cui il 30% non studia e non lavora, ma anche qui l’impatto del lavoro nero è tutto da valutare.
Non c’è dubbio che l’abbattimento della disoccupazione rappresenti la sfida più grande per l’Europa ed in particolare per l’Italia, unica via per mantenere il livello di benessere raggiunto negli ultimi sessant’anni. Occorre tuttavia fermarsi a riflettere sulla qualità dell’occupazione, poiché le politiche del “lavoro a tutti i costi” hanno decisamente fallito.
Spacciare la flessibilità totale ed irrazionale, attraverso la diffusione di forme contrattuali indecenti e spesso illecite nel loro utilizzo, come nel caso dei famosi contratti “a progetto” che mascherano rapporti di lavoro dipendente, non può essere la soluzione ultima.
Questa, infatti, è buona per limare le statistiche, ma non crea alcuna prospettiva di medio-lungo periodo, come dimostra la storia degli ultimi vent’anni. La crisi dei consumi in Italia, infatti, è anche figlia della precarizzazione selvaggia, della “flexicurity” che è molto “flexi” e poco “security”, mito indiscusso degli anni novanta.
Grazie alle (mancate) politiche in questo senso, la concorrenza sul lavoro è passata da stimolo alla produttività a gara di sopravvivenza, gioco in cui vince chi si accontenta delle condizioni peggiori. L’assenza del reddito minimo, esempio unico nell’Europa occidentale, ha contribuito a definire questo scenario impietoso.
L’equivoco drammatico di questo tempo riguarda dunque il potere d’acquisto piuttosto che l’offerta di lavoro, per cui anche i dipendenti con contratto a tempo indeterminato sono costretti, nelle costosissime grandi città, a vivere in casa con gli studenti e come gli studenti.
Ed è proprio lo scarso potere d’acquisto, quindi la bassa aspettativa in termini di qualità della vita, a spingere i giovani italiani oltreconfine, alla ricerca della normalità perduta.
Chi lavora, infatti, non vuole solo sopravvivere ma vuole vivere bene, magari comprarsi una macchina o fare una vacanza, perché questo è ciò che hanno visto fare alle precedenti generazioni.
Le stime parlano di circa 50.000 persone, in maggioranza laureati, che ogni anno prendono la residenza altrove: di questi, moltissimi avrebbero potuto lavorare in Italia, ma semplicemente non si sono accontentati di sopravvivere.
Secondo uno studio del Censis, pubblicato nei giorni scorsi, le rinnovate prospettive economiche dell’Italia porteranno al rientro di molti giovani, ma onestamente non si capisce come questo possa accadere realmente.
La ventata d’ottimismo odierna, che accompagna il governo Renzi, non è supportata da alcun dato reale e difficilmente convincerà gli espatriati a rischiare (di nuovo) sul proprio futuro in questo paese.
A fronte delle evidenti problematiche, che vengono puntualmente riproposte ad ogni primo maggio, la politica ha costantemente mostrato tutta la propria debolezza, se non addirittura incapacità.
Il governo attuale, sotto questo profilo, non può nemmeno essere giudicato, in quanto il tempo per attuare azioni concrete è stato pochissimo. Gli impegni, tuttavia, ci sono e sarà interessante capire cosa ne verrà fuori. I famosi 80 euro al mese sono un passo sicuramente importante in chiave redistributiva e non possono essere liquidati come “elemosina”, visto che faranno comodo a molti.
È altrettanto evidente che questa mossa non risolve alcun problema, per cui rimane l’attesa per la bozza definitiva del Job Act.
Con tutta probabilità assisteremo all’ennesima introduzione e riclassificazione di forme contrattuali, con obblighi più o meno vincolanti di assunzione per ridurre la precarietà, ma gli esperimenti precedenti (vedi la riforma Fornero) non lasciano presagire una brillante riuscita dell’operazione.
Gli interventi decisivi, infatti, dovrebbero riguardare in primis la tassazione del lavoro dipendente e l’intero sistema di procedure burocratiche alle quali le aziende devono far fronte, in modo da attirare capitali stranieri nel paese.
Il momento, alla luce dei dati macroeconomici, è sicuramente quello buono per investire in tal senso, anche aumentando il deficit, visto lo spread ai minimi storici e la rinnovata fiducia dei mercati.
Un ciclo economico positivo potrebbe essere alle porte, grazie all’uscita di molti paesi dalla crisi: l’Italia non può permettersi di perdere anche questo treno, potrebbe essere l’ultimo.