Sono iniziati mercoledì i festeggiamenti del Losar, il Capodanno Tibetano, con cui si da il benvenuto all’anno del “Drago d’Acqua”. Il Losar è per i tibetani, la festa più importante, carica di tradizioni e antiche leggende tramandate da tempi remoti. Quest’anno, però, c’è ben poco da festeggiare. La situazione nella provincia del Tibet e in tutte le aree intorno è molto tesa ed è per questo che il Losar sarà osservato in silenzio; nei templi e nelle case saranno accese lampade alimentate a burro, e si pregherà per le vittime in Tibet e nelle famiglie dei profughi sparsi per il mondo.
Il Dalai Lama, in esilio dal 1959 a Dharamsala in India, si è mostrato profondamente preoccupato per il suo popolo a causa dell’escalation di violenza e repressione in aumento negli ultimi mesi e soprattutto per la reazione di molti monaci che si sono autoimmolati con il fuoco. Risale a pochi giorni fa l’ultimo tragico gesto di denuncia, il ventiquattresimo registrato negli ultimi mesi, secondo quanto affermato dall’International Campaign for Tibet, una Ong con base a Londra che verifica la situazione dei diritti umani in Tibet. Aveva soli 18 anni Nangdrol, il giovane monaco che si è dato fuoco alle porte di un monastero, dopo aver lanciato a gran voce appelli per l’indipendenza del Tibet e per la libertà del Dalai Lama. Dopo il suo suicidio, i monaci si sono raccolti sul posto per ricomporre la salma e si sono rifiutati di consegnarla alle autorità cinesi, organizzando invece una veglia funebre a cui hanno partecipato più di mille persone. La presenza e il cordoglio mostrato da tutta la popolazione tibetana che, pur non osando intervenire durante i suicidi, onora i suoi defunti, smentisce quanto sostenuto dal premier cinese Wen Jiabao che, pronunciandosi in merito, ha affermato che queste autoimmolazioni sono atti estremi tesi a minare la stabilità della regione, che non hanno nessun sostegno da parte della popolazione.
In realtà, questi atti estremi sono segnali di una protesta esasperata ed espressione ultima di un rifiuto al protarsi dell’occupazione e delle politiche repressive da parte del governo cinese che continua a negare al popolo tibetano la possibilità di condurre la propria vita liberamente, preservando il proprio linguaggio, la propria religione e la propria cultura. L’appello che la comunità tibetana rivolge alle autorità di Pechino è quello di riconoscere il reale disagio in cui il popolo tibetano vive assumendosene la piena responsabilità e di porre fine ad azioni repressive che inevitabilmente comportano tragiche conseguenze. Ma per soffocare in modo risoluto una possibile minaccia all’unità e all’integrità nazionale il governo cinese reagisce stringendo le maglie della censura intorno all’intera regione, e quelle del controllo a Lhasa, capitale del Tibet, dove la presenza della polizia è fortissima. Una testimonianza, anonima per motivi di sicurezza, racconta che a Lhasa i tibetani stanno scomparendo, vivono in aree limitate da mura e da filo spinato, costretti ad ascoltare e cantare inni comunisti, guardati a vista da cinesi armati.
I festeggiamenti obbligatori
In questi giorni di festa, molti monasteri sono stati circondati e sui selciati della circuambulazione rituale, pattuglie formate da una dozzina di giovani soldati marciano su e giù a passo d’oca percorrendone tutto il perimetro. Appare chiaro che in un clima di perenne intimidazione, nessuno abbia voglia di celebrare questo nuovo anno il cui avvento induce a riflettere sulla triste e difficile sorte che affligge il Paese. Ma paradossalmente partecipare ai festeggiamenti è un ordine del Partito. Il governo cinese infatti, come era già avvenuto negli anni scorsi, anche durante questo Losar, ha dato ordine a ogni provincia, distretto e municipio di costringere la popolazione a partecipare alle cerimonie pubbliche e agli spettacoli. Le pene previste per coloro che dovessero rifiutare l’“invito” sono parecchio pesanti e vanno dal licenziamento alla schedatura come dissidenti. Questo inverosimile atteggiamento da parte cinese ha una facile spiegazione: fingere che tutto sia normale, prospettare al mondo un clima di distensione e tentare di convincere l’opinione pubblica internazionale che, come affermano le autorità, “il Tibet sia indifferrente alle proteste di pochi separatisti sobillati dal Dalai Lama”. In realtà la situazione che sta montando nel Paese è ben diversa e Pechino la teme, ha paura di un “possibile movimento sotteraneo”, capace di organizzare segretamente un’insurrezione soprattutto in questo periodo dell’anno. Di fatto, ogni anno durante il Losar tutte le aree tibetane vengono sigillate, si entra infatti in una zona (temporale) rossa che culminerà tra il 10 marzo – anniversario della fuga del Dalai Lama in India – e il 14 marzo – anniversario della tragica rivolta del 2008. Il governo cinese ha ben compreso che il popolo tibetano non è più disposto a chinarsi senza reagire ai suoi soprusi, ed è per questo che sceglie il pugno duro: una violenza spietata e una repressione dura e crudele per ristabilire l’ordine. In questi giorni centinaia di arresti sono stati effettuati fra coloro che, con il permesso delle autorità, si erano recati in India per pregare col Dalai Lama; tuttavia, al loro ritorno in patria sono stati arrestati e condannati alla rieducazione tramite il lavoro.
Arrestato lo scrittore Drubpa Kyab
Lo scorso 15 febbraio Drubpa Kyab, un famoso scrittore tibetano è stato arrestato dalla polizia cinese. Oltre venti agenti l’hanno portato via dalla sua abitazione senza esibire alcun mandato, sostenendo di voler semplicemente interrogarlo sui fatti accaduti durante le proteste antigovernative che avevano avuto luogo a Serthar. Stando alla versione fornita dal governo, i dimostranti avrebbero attaccato una stazione di polizia ma non è chiaro se lo scrittore fosse coinvolto o meno. Drubpa Kyab, è nato a Serthar ha 33 anni e da oltre 10 anni insegna lingua e cultura tibetana, discipline proibite in Tibet perché sostituite dal cinese mandarino e dalla cultura Han. Di certo questo nuovo anno non è iniziato sotto i migliori auspici ma il popolo tibetano non è intenzionato ad arrendersi. Come si è abituato a fare ormai da 60 anni.