Vincitore a Cannes 2013 esce in sala “La Vita di Adele – capitoli uno e due”, il film del regista franco tunisino Abdellatif Kechiche, noto in Italia per i film “Cous Cous” e “La Schivata”.
Liberamente tratto da un fumetto “ Le bleu est une couleur chaude” (“Il blu è un colore caldo”, ed Rizzoli) di Julie Maroh, “La Vita d’Adele” è il romanzo sentimentale tra due donne. Ma rimarrà molto deluso chi è in cerca di punti di vista sugli omosessuali, o della verità dell’amore e del sesso tra lesbiche, anche se la Palma d’Oro è stata assegnata sullo sfondo del “mariage pour tous” in Francia, il “matrimonio per tutti”, ossia le manifestazioni che hanno portato in strada migliaia di persone per la legge sui matrimoni omosessuali. Ma se il maggiore argomento in difesa del matrimonio tra gay è sempre stato che “quello che conta è l’amore”, questo è proprio il punto di vista di Kechiche nella “Vita d’Adele”.
Si tratta di un lunghissimo racconto grondante sensualità, in cui centrale è il corpo, luogo privilegiato del desiderio e dell’identità, risimbolizzato in ogni inquadratura, restituito al grande cinema e sottratto al controllo del consumo e a ogni lettura pornografica. Con dettagli, primi piani di gole che deglutiscono, bocche che si aprono, che mangiano, che baciano, che leccano le curve e le carni, si ridisegnano le donne.
Léa Seydoux e Adèle Exarchopoulos sono le due attrici protagoniste – Emma e Adèle. “E’ un film della carne” ha detto il regista: “ ci sono diversi tematiche sviluppate, ma se mi metto a raccontare una storia, il sottotesto del film non deve prendere il sopravvento sui personaggi. E’ il romanzo iniziatico di una ragazza che passa dall’adolescenza alla vita adulta, il ritratto di una donna e un’ ideale di eroina che vuole essere un esempio di volontà, abnegazione e coraggio. Quello che ho voluto mostrare innanzitutto è uno spirito libero”.
Doveva provenire dallo sguardo di un arabo, la visione del “jasad” (“corpo” in arabo), spazio controverso dalle infinite valenze filosofiche attraverso cui si consuma, nell’epoca contemporanea più che mai, l’identità e la libertà degli individui.
Anche la forma della libertà e dell’ educazione sentimentale conquistata da Adèle, che si modella “in negativo” con la vittoria su un microcosmo – nella fattispecie quello delle compagne di scuola che intuiscono le tendenze omosessuali della ragazza -, sono una visione iperrealista di una società giudicante, desiderosa di controllare le azioni sessuali, i movimenti del corpo, la libertà e le scelte degli altri che è tipica del mondo arabo, ma che riguarda le società occidentali, solo apparentemente libere.
E come anche nella “Schivata” si alterna e si tesse la storia della realizzazione sentimentale di Adèle con Emma, con l’educazione sentimentale suggerita sui banchi di scuola e dalla lettura di Marivaux (la vie de Marianne…come quella di Adèle), da sempre il grande scrittore francese delle pene e dei dialoghi d’amore. E ancora una volta, ritroviamo l’immenso rispetto del regista per gli insegnanti, per la loro passione travolgente che “ li fa sembrare dei missionari”, al punto che la scuola diventa una magnifica opportunità di libertà e di crescita, senza nessuna retorica.
Il colore blu, come anche nel fumetto cui si ispira il film, è un po’ la punteggiatura del film. Emma, l’artista di cui Adele si innamora e che la inizierà alla relazione omosessuale, ha i capelli blu da sempre il colore della mente, della libertà e dell’inconscio. Blu sono le lenzuola dove si consuma una maestosa scena di sesso, blu sono gli abiti di Adèle mentre l’amore svanisce e Emma ritrova un conformista e chic biondo platino. E anche il film si chiude con Adele che si allontana in un abito blu, segno di una trasformazione avvenuta.
L’altra punteggiatura, in un sovradosaggio di sensualità, è l’alternarsi del cibo col sesso, come se non ci fosse soluzione di continuità. Talvolta ai limiti dell’ingenuità: Adèle di famiglia piccolo borghese, mangia piatti di pasta al ragù, e kebab quando esce da scuola. Emma di famiglia borghese, “bobo” o diremmo noi “ radical chic” mangia ostriche, con un riferimento clamoroso al sesso femminile. Di certo, tutti mangiano, inghiottono, e rimestano sughi e salse, in una sorta di unica amalgama sociale possibile.
Anzi ha confessato il regista: “Non appena ho visto Adèle l’ho scelta, per il suo modo di mangiare.. Ho pensato: ‘è lei’. Lei è ‘sensorialità’, il suo modo di muovere la bocca, di masticare.. La bocca delle protagoniste è stata un elemento importante in questo film. Per delle ragioni comprensibilmente umane. Tutto per me, inizia dalla bocca.”
Se c’è un trionfo del corpo femminile ( e delle natiche), non sempre è al riparo di qualche scivolone stereotipato, come quello della donna per forza madre: Adèle trova la sua maternità facendo la maestra di scuola, Emma nella relazione che instaura con una donna che ha da poco avuto un figlio.
E talvolta è di uno schematismo irritante la contrapposizione tra le due classi sociali, altro tratto tipico del cinema di Kechiche. Resta il fatto che l’unione tra gli universi è ancora senza speranza. Sembrerebbe allora che l’unico momento in cui si possono abbattere le differenze è grazie alla grandiosità della carne, del sesso e del cibo. A patto che siano espressione di libertà. Solo attraverso i corpi è possibile un’integrazione, ma alla prova della vita e nella struttura sociale, Emma, artista “libera”, ma snob, cerca una sua simile, Adèle, nella quale probabilmente troviamo tracce della vita di Abdel Kechiche, totalmente trasformata dalla sua esperienza di amore e di abbandono, resta la sola portatrice di verità. Emma e Adèle non coincideranno più, una nella sua libertà strutturata dentro un modello sociale, l’altra, veramente libera.