La Scala ha aperto la sua stagione con il Fidelio di Beethoven messo in scena da Deborah Warner, uno spettacolo che ha anche segnato la fine dell’epoca Lissner-Barenboim.
La regista inglese ha colto la forza drammatica della vicenda, evocando scenari molto attuali, dalle guerre in Afghanistan alla Siria, dalle prigioni di Guantanamo ai campi profughi, denunciando, insieme a Beethoven, i soprusi della tirannia e la disumanità della prigionia, rileggendo il Fidelio come una storia universale sulla forza dell’amore e sulla «ricerca della verità nel profondo di una prigione». Le scene di Chloe Obolensky, che firmava anche i costumi, non ricordavano il carcere classico con i cancelli e le inferriate, ma piuttosto l’interno di una fabbrica dismessa, con muri grigi, bidoni di benzina, una scrivania straripante di carte, porte chiuse ovunque. Un Piranesi di cemento, emblema dello squallore della società industriale. Uno spazio insieme ampio e claustrofobico, nel quale, come in un buco nero, affiorava Florestan, sprofondato nell’oscurità dei sotterranei. Di grande effetto, allora, il passaggio verso la luce nel finale, con le pareti che si squarciavano e irrompeva una folla festante, multicolore, con drappi rossi bandiere, avvolta da fumi e da una luce giallastra. Forse in questo finale la regista ha calcato un po’ troppo la mano. Ma lo spettacolo funzionava, anche per la quotidianità dei gesti, senza enfasi, senza retorica, che davano un tocco poetico alla narrazione: Marzelline stirava e stendeva i panni su lunghi fili che occupavano tutta la scena; Fildelio puliva col mocio, in tuta da lavoro, con un berretto di lana calcato sulla testa; i soldati-guardiani, con cani lupo al guinzaglio, sfruttavano qualche pausa per un tiro a canestro. Sul podio, Barenboim ha dato l’addio al pubblico milanese con un’interpretazione intensa, analitica, molto sinfonica, dimostrando ancora la perfetta intesa con l’orchestra scaligera: ha scelto come ouverture la grandiosa Leonore n.2, ha staccato tempi comodi per cogliere tutte le sfumature, le fluttuazioni dinamiche, gli squarci lunari, le tinte cupe (come nel duetto «Nur hurtig fort, nur frisch gegraben»). Ottima Anja Kampe nel ruolo del protagonista, con la sua voce calda, capace di sgranare con precisione le fioriture, la figura fiera e piena di slanci molto naturali. Bella, ma un po’ esile, la voce di Mojca Erdmann nei panni di Marzelline, dall’aggraziata silhouette adolescenziale. Florestan era Klaus Florian Vogt, tenore eroico dall’emissione chiara, aperta, ma molto musicale. Con voce timbrata e bel fraseggio, Kwangchul Youn faceva di Rocco un personaggio umanissimo, molto espressivo. Nobile e sicuro anche Peter Mattei nei panni di don Fernando.
Dominato dall’idea della prigione, della gabbia, era anche il bell’allestimento della Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Šostakovič presentato al Teatro Comunale di Bologna. Allestimento del Teatro Helikon di Mosca firmato da Dmitry Bertman, giocava ancora su scene (di Igor’ Neznyj) che evocavano sotterranei industriali, attraversati da tubi tortuosi, ventole d’areazione, e dappertutto inferriate, seggiole di ferro dagli alti schienali, che disposte in fila ricreavano l’idea di una cancellata. Tutti, protagonisti e masse corali, apparivano costretti in spazi angusti. Katerina, la protagonista del racconto di Nikolaj Leskov, viveva in una gabbia, come una belva reclusa, e sulla gabbia consumava il suo adulterio. Intorno, una coreografia piena di metafore erotiche, di palpeggiamenti attraverso le sbarre, di movimenti di massa che parevano riti bacchici, di lascivi accenni di valzer. E pochi elementi scenici, tutti colorati di rosso, un divano, i bicchieri (che servivano anche da ceri per la simbolica cerimonia funebre del vecchio Boris Timofeevič), le tubature, come vene rosso sangue. Sul podio, uno specialista come Vladimir Ponkin trasformava la musica in un turbinio trascinante e violento, dalla forza barbara, con tempi molto serrati, con addensamenti orchestrali spinti al parossismo, che hanno dimostrato la qualità dell’orchestra del Comunale (soprattutto dei suoi fiati). Indimenticabile la scena finale (la deportazione in Siberia), dove Katerina (intepretata da Svetlana Sozdateleva) si trovava a confronto con la rivale Sonetka, la nuova amante di Sergej (Ksenia Vyaznikova): le due donne apparivano in scena come due cloni (Sonetka era vestita con lo stesso abito rosso e seducente che aveva Katerina nel primo atto), si muovevano specularmente, riproducendo gli stessi gesti. E alla fine roteavano in una danza macabra, avvolgendosi una lunga sciarpa intorno al collo, creando l’effetto di un vortice accelerato, che mimava il loro annegamento nel lago nero e ghiacciato.