L’Ungheria e le politiche di Viktor Orbán sono da tempo al centro dell’attenzione dei media italiani. Il trend conservatore di quelle politiche ha toccato anche le attività dell’Opera Nazionale Ungherese, con la recente cancellazione di molte recite del musical Billy Elliot, a causa di una campagna negativa da parte della stampa filogovernativa (che lo additava come una sorta di «istigazione all’omosessualità»), e del conseguente crollo delle vendite di biglietti. Ma l’Opera di Budapest, con lo storico teatro chiuso durante tutta la stagione, per restauri, ha sfoggiato, in altre sedi, una programmazione ricchissima e molto ricercata. Bastava vedere i titoli di fine stagione.
Si è per esempio festeggiato il centenario dell’opera di Béla Bartók Il Castello di Barbablù (che aveva debuttato all’Opera di Budapest il 24 maggio 1918) con un progetto intitolato “Bluebart100”, tre diversi allestimenti dell’opera, abbinati ad altre tre opere contemporanee. Il primo era firmato dal regista danese Kasper Holten (solisti Ildikó Komlósi e András Palerdi), e abbinato all’opera Senza sangue di Peter Eötvös, che era anche sul podio; il secondo era lo storico allestimento di Viktor Nagy, del 1993 (direttore Ádám Medveczky, solisti Gyöngyi Lukács e András Palerdi), preceduto da una nuova opera di Iván Madarász, Prologue (commissione dell’Opera Nazionale Ungherese, regia di Géza Tóth), basata sul prologo di Barbablù che nell’opera di Bartók è solo recitato; il terzo era affidato alla regia di Miklós Szinetár (solisti Erika Gál e István Kovács) e diretto da Gergely Vajda, autore anche del l’atto unico che gli è stato affiancato, Barbie Blue (libretto di András Almási-Tóth ispirato alle Sept Femmes de la Barbe-Bleue di Anatole France), una rilettura dell’opera di Bartók in forma di satira tragicomica, che manteneva lo stesso organico orchestrale e le stesse voci, trasformate nella coppia Barbie e Bernard: ma qui era lei che guida la vicenda, svelando all’incredulo marito, attraverso le sette porte, altrettanti segreti della sua vita.
Nel cartellone dell’Opera di Budapest si sono viste altre opere rarissime, molte in prima ungherese. Tra queste il Singspiel Der vierjährige Posten (Quattro anni di guardia) di Schubert, in un dittico con l’opera comica Die Opernprobe (le prove dell’opera) di Albert Lortzing, due atti unici affidati rispettivamente alla regia di Márk Tárnoki e di Judit Szokol. Uno spettacolo intitolato Celebration of Joy, basato sulle cantate profane di Bach, quelle composte per occasioni importanti, incoronazioni e altri eventi politici, basate su vicende allegoriche o mitologiche, montate insieme come un quadro unico, come vicende di un epoca in declino, con malinconia e una vena di humour. Per non farsi mancare niente quanto a rarità, l’Opera di Budapest ha proposto anche la prima ungherese del Corregidor di Hugo Wolf, opera in quattro atti (1896) eseguita in forma di concerto. Grande liederista, Wolf si cimentò solo in questo caso con il genere dell’opera, ispirandosi alla novella El sombrero de tres picos di Pedro de Alarcón: una vicenda di corteggiamenti, ricatti, inganni e travestimenti, ambientata in una piccola città dell’Andalusia, dove il gobbo corregidor Don Eugenio cerca di conquistare la giovane Frasquita, felicemente sposata con il geloso mugnaio Tio Lukas. Wolf intesse una raffinatissima scrittura vocale di tipo liederistico, caratterizzando molto bene la psicologia dei diversi personaggi, con una grande varietà di espressioni, sensualità ed umorismo. Magnificamente orchestrata, con echi di Wagner (Valchiria) e di Mendelssohn (Sogno di una notte di mezza estate), e basata sulla tecnica del Leitmotiv, la partitura è costruita come una concatenazione di Lieder, intessuta di controcanti strumentali, ricca di concertati, con variopinti intermezzi orchestrali, come un flusso melodico che si espande senza sosta ma privo di una vera tensione drammatica, e poco adatto alla scena. A questo si deve l’insuccesso del Corregidor, oltre che al debole libretto di Rosa Mayreder-Obermayer, che si sofferma su troppi dettagli. Eccellente dunque l’idea di eseguire l’opera in forma di concerto, anche se la direzione di János Kovács, seppure brillante e ricca di colori, non riusciva a coglierne le infinite sfumature. Nel cast, di buon livello, spiccavano il tenore Tibor Szappanos (Don Eugenio de Zuniga, il governatore), il mezzosoprano Tünde Szabóki (Donna Mercedes, moglie del governatore), dalla voce molto timbrata, Gabriella Balga (Frasquita) e Zsolt Haja (Tio Lukas, mugnaio).
Alla ricerca di spazi alternativi, in attesa della fine dei lavori nello storico teatro, il Museo Kiscell e le rovine della chiesa ad esso adiacente sono diventate la cornice per una lunga serata dedicata a Paul Hindemith, intitolata “GermanLateNight”, con quattro lavori rari (e in prima ungherese). Uno spettacolo molto suggestivo, ricco di idee, realizzato con forze giovani, ma dall’alto livello professionale, in collaborazione con l’Università delle Arti teatrali e cinematografiche, con l’Accademia di Musica Franz Liszt, con Università ungherese delle Belle Arti. Nel cortile del museo è stata eseguita l’Ouvertüre zum Fliegenden Holländer (Ouverture dell’Olandese volante) per quartetto d’archi, una trascrizione caricaturale immaginata da Hindemith (antiwagneriano militante) come la celebre pagina wagneriana «suonata a prima vista da un’orchestra di second’ordine ad una stazione termale alle sette di mattina». Una trascrizione sgangherata, piena di dissonanze e di sfasamenti ritmici, che è stata eseguita in forma teatrale, con una divertente coreografia di Péter István Nagy e un apparato scenico disegnato da Sára Luca Jeli. Un taglio ironico e leggero aveva anche Hin und zurück (Andata e ritorno), opera in miniatura, uno “sketch” sulle convenzioni del teatro musicale, che racconta di un marito geloso che uccide la moglie Helene, per poi accorgersi di aver preso un abbaglio (un po’ come Otello). È allora che l’assurda vicenda si riavvolge su se stessa fino al punto di partenza, quando Helene entra in salotto dando il buongiorno alla zia. La regia di Bence Varga riprendeva questa dimensione da spettacolo di varietà, mostrando tutta la storia come se fosse il trucco di un prestigiatore, e sfruttando la vis comica dei due giovani e promettenti protagonisti, il tenore Bence Gulyás e il soprano Evelin Drahos.
All’interno della chiesa è andata in scena anche l’ultima opera di Hindemith, la meno conosciuta, The Long Christmas Dinner (la lunga cena di Natale), su libretto in inglese dello scrittore americano Thornton Wilder (tradotto poi in tedesco dallo stesso compositore, per la prima a Mannheim nel 1961). È la storia della famiglia Bayard, tipica famiglia americana, che si dipana attraverso tre generazioni: un arco di 90 anni compresso in un’ora, e concentrato durante gli incontri dell’intera famiglia per Natale, sempre all’interno della sala da pranzo, sempre intorno al tavolo apparecchiato. Una forma drammaturgica antiretorica, costruita come una successione vorticosa di azioni e conversazioni reiterate, vacue, insensate, come il ciclo della vita e della morte. Una forma che piacque molto a Hindemith, perché coincideva con la poetica della sua ultima fase creativa. Ne ricavò un atto unico, ricco di invenzioni, in dodici scene dove si intrecciavano pezzi chiusi, ariosi, canzoni natalizie, soluzioni arcaiche e modali. Una partitura contrappuntistica, lontanissima dall’espressionismo degli anni Venti, con una scrittura essenziale (che rimanda a Marienleben e all’opera Die Harmonie der Welt) e un’orchestrazione asciutta, fatta di timbri puri, senza raddoppi, con un ruolo di primo piano affidato ai fiati. István Dénes l’ha diretta con grande intelligenza musicale, e con grande nitidezza, dividendo anche sulla scena gli strumenti (fiati a destra e archi a sinistra). Dinamica e variopinta la regia di Péter István Nagy (con scene e costumi di Sára Luca Jeli), che faceva entrare in scena gli 11 personaggi, generazione dopo generazione, attraverso un lungo scivolo ricurvo, come una macchina del tempo. Entravano da un lato del palcoscenico (la nascita) ed uscivano dall’altro (la morte), muovendosi in maniera caricaturale, tremebondi, con gesti ritmici “polifonici” che ricalcavano le strutture contrappuntistiche e imitative della parte musicale. Nel cast, di cantanti giovanissimi, si sono distinti in particolar modo il soprano Xénia Sárközy (Lucia) il baritono Lőrincz Kósa (Roderick, il marito di Lucia), il contralto Andrea Meláth (nei panni di mamma Bayard e della cugina Ermengarde).
Le arcate della chiesa diventavano infine lo scenario naturale per Sancta Susanna, breve e scandaloso atto unico del 1922, emblematico del periodo espressionistico di Hindemith, tratto dal dramma omonimo di August Stramm: la storia dell’emancipazione sessuale di una giovane suora turbata dai gemiti di piacere di due fidanzati che amoreggiano nel campo, e dal ricordo di suor Beata che fu murata viva perché vinta dalla passione fisica. Alla fine Susanna si spoglia in chiesa e contempla la propria bellezza e il corpo di Cristo. La Regia di Bence Varga, giocava sulle luci, le ombre, gli spazi naturali della chiesa (scene e costumi di Ilka Giliga), solo con un grande crocifisso su un lato della scena, una pioggia di petali rossi che evocavano i piaceri carnali, il chiarore della luna, un coro di suore che si muovevano compatte, e alla fine circondavano Susanna inghiottendola nella loro massa nera. Stupenda la resa musicale, con l’orchestra (che suonava dietro le arcate della chiesa) diretta con grande precisione da István Dénes, e le voci stupende di Orsolya Sáfár, una Susanna piena di passione, e di Andrea Meláth che restituiva con una certa asprezza vocale il tormento interiore della consorella Klementia.
Lasciando l’Ungheria, sorge spontaneo il confronto con l’allestimento di Sancta Susanna presentato, sempre a fine stagione, al teatro lirico di Cagliari. In questo caso l’opera di Hindemith era stranamente abbinata a Cavalleria Rusticana (forse ritenendo che una serata tutta hindemithiana sarebbe stata troppo ostica per il pubblico, che i direttori artistici nostrani trattano troppo spesso come una massa di decerebrati). A tenere insieme queste due opere c’era solo l’impianto scenico di Benito Leonori e la regia Gianfranco Cabiddu, che però ha dimostrato di avere poca dimestichezza con il mondo dell’opera. Banale l’idea di contrapporre sacro e profano, collocando la cappella di Susanna e la capanna degli amanti ai lati opposti della scena, troppo didascalica la grande ragnatela. La cappella diventava poi la chiesa di una Cavalleria, dove tutto sembrava costruito come un presepe vivente. Introdotta da filmati con scene di guerra (per spiegare al pubblico ritardato che Turriddu era «tornato da fare il soldato»), l’opera procedeva come una serie di cartoline folkloristiche, con lo scambio tra il colore locale siciliano con quello sardo, evidente nei costumi, nella miniera al centro del paese (che si apriva durante l’Intermezzo), nel continuo affaccendarsi di donne e uomini introno a carri di pietre e di carbone. Per fortuna sul podio c’era Marco Angius che ha estratto dall’opera di Hindemith una grande quantità di finezze timbriche, e ha offerto una lettura personale, molto trasparente dell’opera di Mascagni.