Una notevole e sostenuta crescita economica ha portato il Brasile a traguardi inaspettati: nel giro di un ventennio 35 milioni di persone sono uscite dalla povertà mentre il Pil annuo si attesta da tempo sul 5% (persino durante la crisi del 2009 la flessione è stata minima).
Il Paese sudamericano ospiterà i Mondiali di calcio 2014 e, per la prima volta nell’America meridionale, le Olimpiadi del 2016. Criminalità organizzata, inquinamento e deforestazione dell’Amazzonia restano i punti deboli: se il Brasile dovesse riuscire a contenere questi problemi, diventerebbe un perfetto modello di economia virtuosa.
“Il Brasile cresce con passione”. Così Josè Viegas Filho, ambasciatore brasiliano a Roma, ha sintetizzato una crescita economica che ha sbalordito il mondo, brasiliani compresi. Merito dei due presidenti della Repubblica, Fernando Henrique Cardoso e Luiz Inàcio Lula da Silva, che si sono susseguiti dagli anni Novanta alla guida di una delle potenze regionali del nuovo millennio.
Fino all’elezione di Cardoso, l’incertezza del panorama politico, ancora inquinato dalla presenza delcorpo militare, non aveva permesso l‘attuazione di chiare politiche orientate verso il progresso
tecnologico. Cardoso riuscì nel difficile compito di attirare importanti investimenti stranieri (anche italiani: Telecom e Fiat sono presenti da anni sul territorio), che innescarono un processo di
crescita economica tipico dei Paesi del secondo mondo: sfruttamento intensivo del territorio, un altissimo debito pubblico, inflazione, disuguaglianza sociale, queste furono le conseguenze inevitabili delle riforme suggerite dal Fondo monetario internazionale.
Il presidente operaio Lula, eletto nel 2002, ha saputo invece instradare l’economia brasiliana verso l’autosufficienza e sganciarla da un’eccessiva dipendenza dall’esportazione di materie prime
(caratteristica di gran parte dei Paesi in via di sviluppo), grazie a un‘attenta spesa pubblica di sostegno all‘industrializzazione. Avviato un serio dialogo con la parte imprenditoriale, Lula ha mantenuto le sue promesse di giustizia sociale: riforma pensionistica, interventi contro la denutrizione e un piano di sussidi alle fasce più povere, il famoso Borsa Familia, riconosciuto a livello internazionale come uno dei migliori programmi di social welfare mai emanati.
Come poche volte nella storia dei Paesi industrializzati, la ricchezza prodotta è stata distribuita su tutta la nazione: durante i due mandati di Lula, il Brasile ha registrato un aumento del 64% del
salario reale, che ha garantito un forte sostegno alla domanda interna, fondamentale per una completa crescita (recentemente infatti il governo cinese ha “suggerito” ai sindacati locali di contrattare un aumento del salario). Il Paese ha superato molto bene anche la prova della crisi mondiale: il tasso di disoccupazione è rimasto relativamente contenuto, gli istituti di credito hanno evitato il fallimento.
Adesso spetta alla neo presidente Dilma Rousseff non vanificare le scelte politiche fatte dal predecessore (figura di spicco peraltro del suo partito, il Partito dei lavoratori) e migliorare
questo “capitalismo di sinistra”, come lo ha definito lo stesso Lula.
Le potenzialità sono immense: ormai l’industrializzazione ha raggiunto anche il Nord Est, tradizionalmente più arretrato, un’attenta politica energetica ha liberato il Brasile dal giogo del petrolio (il 70% dell’energia prodotta proviene da fonti alternative), un sistema di trasparenza dei conti pubblici assicura un reale controllo sulle istituzioni statali (alcuni ministri del governo Lula sono stati costretti alle dimissioni in seguito a scandali di corruzione), la popolazione è giovane e istruita, con una tradizione culturale di tolleranza e apertura mentale. Un buon piano di infrastrutture, già avviato proprio da Dilma quando era ministro delle Miniere e dell’energia e poi della Casa Civil, aiuterà a integrare ancora meglio il mercato nazionale, costituito da 190 milioni di persone, distribuiti in 26 stati federati.
La lotta alla criminalità organizzata è un ulteriore obiettivo da raggiungere entro il 2014: il tasso di mortalità per arma da fuoco è tra i più alti al mondo, e nel 2007 le truppe federali dovettero intervenire negli scontri scoppiati a Rio de Janeiro tra i narcotrafficanti e i gruppi autogestiti di agenti delle forze dell’ordine civili e militari (le cosiddette milicias) che garantiscono a modo loro la sicurezza pubblica, sotto pagamento coatto di una “tassa di protezione”. Anche l’anno scorso l’esercito è stato mobilitato per fermare la spirale di violenza scatenata da clan rivali, per spartirsi gli introiti del traffico d’ami, di droga, e delle estorsioni. La commistione tra Stato e criminalità è altissima e si sta rafforzando sempre di più l’influenza delle organizzazioni mafiose straniere, in primis quelle italiane (soprattutto della Sacra Corona Unita d’origine pugliese).
Gli interessi della criminalità organizzata e del settore industriale spesso si intrecciano: in questa settimana sono stati assassinati quattro attivisti ambientali, proprio mentre il Parlamento discute la legge pro-deforestazione. Quello dell’ecosostenibilità è un problema molto sentito in Brasile, come testimonia anche la candidatura alle presidenziali del 2010 di Marina Silva, ex ministro dell’Ambiente dimissionario per mancato sostegno dell’allora presidente Lula, che alle elezioni ha ottenuto ben il 20%.
Le imprese sono chiamate “bandeirantes”, come i predatori portoghesi del 1700-1800. E anzi molte conservano la nazionalità europea: in tutto sono 25 le multinazionali presenti nella foresta amazzonica, che ne posseggono una parte estesa almeno quanto il Belgio, affiancate poi da compagnie locali di media e piccola dimensione. Il disboscamento massiccio iniziato nel 2000 ha provocato molte tensioni sia con gli indigeni, già emarginati dal punto di vista civile, ed ora scacciati dai loro villaggi, sia con gli agricoltori, travolti dai cambiamenti climatici. Il fallimento della riforma agraria voluta da Lula, l’introduzione cioè delle colture specializzate al posto delle
monocolture latifondiarie spesso presenti all‘interno della stessa Amazzonia, ha certamente inficiato la lotta per la preservazione del “polmone verde” del mondo.
Il futuro del Brasile non è legato solo alla prudente gestione finanziaria finora perseguita, con il contenimento del debito pubblico e dell’inflazione, e contemporaneamente il superamento progressivo della povertà. “Non facciamo diventare il Brasile una nuova Seattle”, lo slogan degli ambientalisti, esprime l’esigenza di salvaguardare il Brasile dalla cementificazione e dall’industrializzazione forzosa, sentite come un’americanizzazione del paesaggio e dell’economia.
Trovare un modo tutto brasiliano per conciliare produzione e ambiente, intesi tanto come ecosistema quanto come società, è la sfida dei nuovi governi.