Pochi giorni fa è ricorso il 519° anniversario della scoperta dell’America. «Alas dos horas después de media noche pareçió la tierra». Con queste parole Cristoforo Colombo il 12 ottobre 1492 annotava sul suo diario l’arrivo, dopo 69 giorni di navigazione, nell’isoletta di Guanahanì, battezzata successivamente San Salvador, sulle cose delle Antille. Era l’inizio di una nuova era: la scoperta dell’esistenza di un nuovo mondo popolato da nuovi uomini di cultura diversa. Era l’inizio dell’età moderna.
Cristoforo Colombo, esperto navigatore genovese, aveva approfittato del fervore della guerra di riconquista cristiana della Spagna, per proporre ai reali di Castiglia e Aragona il suo progetto di raggiungere via mare il Cipango, favolosa terra dove risiedeva il Gran Khan, ed altre terre sconosciute. Ad un primo rifiuto nel 1487, seguì il finanziamento dell’impresa. Il 3 agosto 1492 Cristoforo salpava da Palos con tre imbarcazioni: la Niña, la Pinta e la Santa Maria. Giunto ad Haiti trovò una società organizzata dove gli indigeni portavano monili e conoscevano l’uso delle spezie. Tornando in Europa portò con sé molti di questi oggetti indigeni e molti indios, lasciando nello stupore la folla che lo accolse nei porti di Lisbona e Palos, e nelle città di Siviglia e Barcellona. Il problema era quello di assicurare alla corona di Castiglia il possesso delle terre appena scoperte. Era prerogativa del papa, in virtù di un diritto di sovranità su tutto il mondo in quanto rappresentante di Dio in terra, dare una concessione sulle nuove terre che fosse accettata da tutti i monarchi.
La concessione papale.
Fu papa Alessandro VI (Rodrigo de Borja), nativo di Valencia, a salutare con grande entusiasmo la scoperta di Colombo: il pontefice vedeva nell’impresa del navigatore la possibilità di una grande espansione della cristianità in terre così lontane. Il 3 maggio 1493 emise la bolla Inter cetera, nota come “bolla di donazione”, con la quale concesse ai sovrano iberici il possesso sulle nuove terre accordandogli tutti i privilegi che la santa sede aveva precedentemente dato al Portogallo. Si creò un grave incidente diplomatico in quanto la concessione del papa venne ad alterare la spartizione dell’oceano Atlantico concordata nel 1479 dalla Castiglia e dal Portogallo, mediante il trattato di Alcàçovas: al Portogallo spettava la costa africana, alla Castiglia la costa davanti alle Canarie. Con la scoperta dell’America la Spagna decise di non rispettare quel trattato e, rivolgendosi direttamente al papa, sperava di evitare una guerra col Portogallo e di stipulare un nuovo trattato. Il Portogallo, invece, riteneva che proprio in virtù di quel trattato le terre scoperte da Colombo gli appartenessero di diritto e, poiché la sue proteste presso la corte spagnola non avevano ottenuto alcun risultato, aveva allestito una flotta da guerra che doveva seguire Colombo nei futuri viaggi per occupare con la forza gli eventuali nuovi territori. Fu così che fu inviata una legazione a Roma con una minuta della bolla, riportante alcune correzioni fondamentali per porre fine alla controversia.
Fu emessa una nuova bolla, retrodatata al 4 maggio 1493, nota come Inter Cetera II o “bolla della spartizione”, in cui il papa con precisione marcò il confine tra le terre di competenza del Portogallo e quelle della Castiglia: il confine era costituito da una linea immaginaria che attraversava la terra dal polo artico al polo antartico, passando cento leghe ad ovest delle isole Azzorre e di Capo Verde. La bolla Inter Cetera II è contenuta nel Registro Vaticano 777, conservato presso l’Archivio segreto Vaticano. In occasione dell’anniversario della scoperta del nuovo mondo è stato svelato che la bolla Inter Cetera II sarà uno dei documenti che l’Archivio Segreto Vaticano renderà visibile in occasione della mostra Lux in Arcana organizzata ai Musei Capitolini di Roma, a partire da febbraio 2012.
Il 3 maggio fu emessa una nuova bolla, la Eximie devotionis, contenente le istruzioni circa la cristianizzazione de nativi del nuovo mondo. La missione fu affidata al francescano Bernardo Buil nominato delegato apostolico per l’evangelizzazione e l’organizzazione della Chiesa. Il frate, per volere dei sovrani iberici, aveva preso parte al secondo viaggio di Colombo (1493-1496), con lo scopo di impedire eventuali violenze contro gli indios. In quanto sudditi della Corona, gli indigeni erano tutelati e potevano lavorare solo se salariati. Purtroppo innumerevoli e terribili furono gli abusi. Ben presto gli indigeni furono ridotti in schiavitù e depredati degli oggetti preziosi. Lo stesso Colombo ordinò alcune stragi, portò numerosi indios in Europa in qualità di schiavi, arrivando addirittura a regalare ad un amico una donna per addestrarla “ad usum cubiculi”.
La compagnia di Gesù e la cristianizzazione del nuovo mondo.
All’indomani della scoperta del nuovo mondo, il papa aveva chiesto ai sovrani l’invio di missionari che si occupassero di convertire gli indigeni alla fede di Cristo. All’impresa di Colombo ne seguirono molte altre. Nel 1498 Vasco de Gama approdò in India, nel 1500 Pedro Alvares Cabal toccò le coste del Brasile, nel 1511 Hernan Cortes si impossessò i Cuba e in pochi anni conquistò il Messico. Alle nuove scoperte fecero seguito le prime grandi missioni di francescani, dominicani e agostiniani. Nello stesso periodo la riforma di Lutero (1517) e di Calvino (1536), e lo scisma di Enrico VIII (1534) in Inghilterra avevano messo a repentaglio l’unità della Chiesa cattolica, dal momento che centro e nord Europa rischiavano di staccarsi per dare vita a comunità e chiese protestanti. Altro problema era costituito dal lassismo e dalla corruzione del clero nei paesi latini, e dall’affermazione di una cultura pagana affermatasi durante l’Umanesimo ed il Rinascimento. Nel 1539 un gruppo di “maestri in arti”, laureati in filosofia e in teologia alla Sorbona di Parigi, si riunì a Roma e costituì un nuovo ordine religioso denominato Compagnia di Gesù (in latino Societas Iesu, in sigla “S.I.”). Scopo e centro della vita dei gesuiti era, ed è ancora oggi, Gesù, di cui imitavano l’operato in vita a costo di ogni sacrificio, fino alla morte. Ignazio di Loyola, riconosciuto quale capo del gruppo, il 24 giugno 1539 presentò a papa Paolo III la Formula Istituti, uno schema in cui erano descritti in cinque punti le caratteristiche e le finalità dell’ordine che si voleva fondare (nell’archivio segreto vaticano sono conservati la minuta della bolla contenente i capitoli fondativi della compagnia A.A. arm.I-XVIII 6461).
Contro ogni eresia.
Il 27 settembre 1540 il Papa approvò la richiesta mediante l’emissione della bolla Regimini militantis Ecclesiae (anch’essa custodita nell’archivio segreto, nel registro vaticano 1649). Si stabilì che il capo della Compagnia sarebbe stato eletto a vita e che i membri, oltre ai tre voti di povertà, obbedienza e castità, facessero voto di obbedienza al Papa. In questo modo il pontefice avrebbe avuto il diritto di mandarli in qualunque parte del mondo e affidare loro qualsiasi tipo di missione ritenesse necessaria. Scopo del nuovo ordine era la difesa della dottrina cristiana contro le eresie luterana e calvinista, l’evangelizzazione dei popoli dei paesi recentemente scoperti, il miglioramento culturale e morale del clero, la diffusione di una cultura cristiana e la cura delle anime. Questi obiettivi erano raggiungibili mediante le opere di carità, la creazione di scuole, l’insegnamento, la predicazione, gli esercizi spirituali e l’ascolto delle confessioni. Il tutto svolto nella completa gratuità e nell’impegno a prediligere sempre i luoghi più pericolosi e ostili. I gesuiti sono persone consacrate all’amore e al servizio di Dio, della Chiesa e degli uomini. Per assolvere ai difficili compiti della Compagnia era necessario che avessero una elevata cultura, sia in campo filosofico-teologico che letterario. Per questo si stabilì che ai gesuiti fosse impartita una lunga e rigorosa formazione spirituale e culturale.
Le missioni.
La Compagnia di Gesù è un ordine religioso missionario. Il grande impegno dimostrato in ogni parte del mondo, ha fatto sì che l’operato dei gesuiti sia stato definito una “epopea missionaria”. Sono state condotte missioni in Alaska, Brasile, Africa Centrale, India, Filippine, Cina e Giappone, alcune hanno comportato la perdita di numerose vite. Ancora è vivo il ricordo delle tremende persecuzioni cui furono sottoposti i gesuiti in Giappone. Nonostante le difficoltà si dice che i gesuiti facessero a gara per essere inviati in missione: più pericoloso era l’impegno, più grande era l’ardore e il desiderio di partire. Per quanto concerne l’America, i gesuiti ne evangelizzarono quasi tutti i Paesi: iniziando dal Brasile (1549), giunsero in Florida (1566), passando per il Perù (1568), il Messico (1572), il Tucumàn (1586), il Paraguay (1588), il Cile (1592) e l’Ecuador (1592). Furono i primi missionari ad andare in Canada, dove dovettero lavorare in condizioni quasi insopportabili. Si adoperarono anche a favore degli schiavi che dall’Africa venivano deportati a Cartagena (Colombia), dove giungevano in condizioni disperate. Tra di essi merita di essere menzionato san Pietro Claver, canonizzato nel 1888 e dichiarato patrono delle missioni africane. Vediamo alcune delle missioni condotte nel nuovo mondo.
Gli indigeni del Brasile.
Negli stessi anni in cui Francesco Saverio iniziava l’evangelizzazione del lontano Oriente, altri gesuiti si dedicarono alle missioni presso le popolazioni indigene del Brasile, grande possedimento portoghese. Il 29 marzo 1549 una comunità di sei religiosi guidata da Manuel da Nòbrega partì per l’America e sbarcò a Bahìa de Todos los Santos. Il loro primo incarico fu quello di curare l’educazione dei figli dei coloni portoghesi, insediati lungo la costa atlantica: la loro prima capanna di fango eretta a São Salvador da Bahia divenne il collegio massimo, una delle più importanti istituzioni culturali del Paese.
Nel 1553 Nóbrega si spinse all’interno insieme a José de Anchieta, un giovane gesuita proveniente dalle Canarie. I due fondarono un seminario destinato a diventare il centro per l’organizzazione dell’apostolato presso gli indigeni tupi, che i missionari organizzarono in comunità stabili. Da quell’insediamento si sviluppò la città di São Paulo.
Anchieta scrisse la prima grammatica della lingua tupi e fu autore di numerosi canzoni in lingua indigena utilizzando melodie popolari. La lingua con cui i missionari si esprimevano erano naturalmente il portoghese, lo spagnolo e il latino, ma ben presto comunicarono nei vari idiomi locali, che non solo appresero, a costo di enormi difficoltà, ma pure codificarono. Aveva così inizio anche in Brasile quell’operazione di inculturazione cristiana, di cui la Compagnia di Gesù sarà maestra. La minaccia più seria, più la spietata e più costante fu costituita dai bandeirantes o paolisti (schiavisti) brasiliani nella prima metà del seicento. Questi per procurarsi schiavi massacrarono centinaia di migliaia di indigeni. La predicazione dei missionari si rivolgeva tanto agli indigeni che ai rari coloni portoghesi. Ben presto, però, si venne a creare un incolmabile strappo fra i coloni, avidi di facili guadagni, e i predicatori della Compagnia di Gesù, gelosi custodi della dignità degli indios, affidati alla loro cura pastorale dallo stesso Re del Portogallo. Principale oggetto di scontro fra gesuiti e coloni divenne fin da subito l’immorale piaga della schiavitù, praticata nei confronti di indios e di africani, anche se ufficialmente proibita dalla Chiesa fin dal 1537. Papa Paolo III con la bolla pontificia Sublimis Deus aveva condannato la schiavitù, asserendo che gli amerindi erano esseri umani e in quanto tali godevano dei diritti di libertà e di proprietà.
La Corona lusitana, come già quella ispanica, si poneva sulla stessa lunghezza d’onda, sia pure evidenziando talune eccezioni relativamente ai prigionieri di guerra. La legge portoghese del 20 marzo 1570, infatti, aveva decretato la piena libertà degli indios, ad eccezione dei casi in cui questi fossero caduti prigionieri nelle mani di Portoghesi impegnati a combattere per una “guerra giusta”, ossia nel caso in cui l’iniziativa ostile fosse partita dagli stessi indios. Tale eccezione di fatto consentiva il facile aggiramento della legge. Fu per questo motivo che, sotto la spinta dei gesuiti, furono successivamente emanate leggi sempre più restrittive, che miravano a delegittimare totalmente la schiavitù. Si giunse così ad un editto del 1609 che la proibiva in ogni circostanza, definendola contraria al diritto naturale: anche se gli indios avessero rifiutato la religione cristiana per seguire i propri riti religiosi, dovevano comunque essere considerati e trattati come persone libere. Fu in questo difficile periodo, sebbene di relativa collaborazione con la Corona, che i gesuiti diedero vita all’esperienza delle riduzioni (reducciones). Gli indios, che partecipavano al governo dei villaggi disponendo di ampie autonomie, finché rimasero nelle riduzioni, sotto la protezione dei gesuiti, furono tutelati e considerati vassalli diretti dei rispettivi sovrani, tanto spagnoli che portoghesi, senza interferenze di coloni e governatori. Ma la violenta ribellione dei coloni alle leggi abolizioniste costrinse la Corona portoghese a ripristinare, nel 1611, la precedente eccezione della “guerra giusta”, cavillo che ormai veniva sfruttato con relativa facilità per ridurre in schiavitù i nativi brasiliani. I gesuiti non si diedero mai per vinti, e continuarono a protestare e a battersi per l’incolumità e la libertà degli indios. La lotta si protrasse con alterne vicende per tutto il XVII secolo. I coloni, sostenuti dai governatori locali, riuscirono ad ottenere dal Re del Portogallo l’espulsione di tutti i gesuiti dalla provincia brasiliana di Maranhao (1684) o l’arresto dei più famosi predicatori. Le cose precipitarono ancora nel secolo successivo, allorché con il definitivo affermarsi dell’assolutismo regio e con l’incipiente illuminismo, i monarchi portoghesi, al pari dei loro colleghi europei, sancirono la scissione dell’antico legame con la dottrina sociale cristiana. Si sentirono quindi sciolti da qualsiasi dovere che non derivasse dalla loro stessa autorità. Nel 1760 il Marchese di Pombal ordinava l’espulsione dei gesuiti dal paese: fu così che 670 religiosi furono dispersi dal nord al sud del Brasile. Le conseguenze in Brasile furono tragiche: le riduzioni furono distrutte, gli indigeni dispersi o schiavizzati, la Compagnia di Gesù soppressa. Il regime schiavista si protrasse in Brasile sino al 1888.
I nomadi delle foreste del Paranà.
I gesuiti furono inviati in Paraguay nel 1585 dal vescovo di Tucumàn per evangelizzare i guaranì, abitanti nomadi delle foreste, che, dinanzi all’avanzata degli spagnoli, si erano ritirati a est del Paranà, nelle zone delle Pampas e del Chaco. Inizialmente l’azione dei gesuiti fu poco efficace per vari motivi, quali il metodo adottato della missione itinerante ed il carattere nomade della popolazione. L’ostacolo maggiore frapposto alla conversione dei guaranì era rappresentato dagli encomenderos: coloni spagnoli che in ricompensa di conquiste o meriti particolari, ottenevano dal re o dal governatore il privilegio di avere a servizio un numero determinato di indiani. Compito degli encomenderos era quello di difendere ed istruire nella religione i propri indiani. Si trattava di una specie di signore feudale degli indiani. Questo sistema, già affermato al tempo di Colombo, era già ben radicato quando giunsero i primi gesuiti nel paese. I nativi furono molto diffidenti nei confronti dei missionari gesuiti, in quanto temevano che il disegno di farli vivere in villaggi o riduzioni mirasse a consegnarli come schiavi ai tanto odiati encomenderos. Fu il preposito generale Claudio Acquaviva a suggerì ai missionari la creazione di colonie stabili di indios, lontane dai centri abitati spagnoli e quindi al sicuro dall’influsso dei costumi coloniali e dai cacciatori di schiavi. Sorsero così le prime riduzioni (o redduciones), approvate dalla Corona spagnola ma ostacolate dai coloni. Si trattava di piccoli villaggi fortificati autonomi a struttura teocratica che, grazie alle attività agricole introdotte dai gesuiti (coltivazione del cotone e del mate), godettero una certa prosperità. Le riduzioni del Paraguay, tra il 1610 e il 1640 circa, si diffusero fino a comprendere gli indios della provincia brasiliana di Tapes e andarono a costituire quasi una repubblica indipendente (il cosiddetto “stato gesuita del Paraguay”), suscitando l’ostilità delle locali autorità ecclesiastiche e coloniali tanto che Filippo IV di Spagna autorizzò gli indigeni a munirsi di armi da fuoco. Tra il 1628 e il 1635 i portoghesi del Brasile attaccarono le riduzioni che, alla fine del conflitto, nel 1641 erano ridotte a una trentina, con circa 150.000 indios cristiani.
Dal Québec alla confluenza del Missouri e dell’Ohio.
I primi gesuiti giunsero a Québec nel 1632 sotto la guida di Paull Le Jeune. Quì fondarono il collegio di Nostra Signora degli Angeli. A pochi anni dall’arrivo in Canada i gesuiti avevano già raggiunto il numero di 23 padri e 6 fratelli. I missionari, oltre a dedicarsi all’evangelizzazione degli uroni, decisero di spingersi verso l’interno per cercare contatti con altri popoli indigeni. Il gesuita Jaques Marquette, avendo sentito parlare di un grande fiume che scorreva verso il sud che gli avrebbe permesso di raggiungere altri territori abitati dagli amerindi, si unì al viaggio dell’esploratore Louis Jolliet. Fu così che nel 1673, risalendo il corso del Wisconsin, scoprì il corso superiore del Mississippi e discese il fiume esplorando soprattutto le confluenze del Missouri e dell’Ohio, giungendo alla conclusione che il fiume scorreva verso sud per sfociare nel golfo del Messico. I gesuiti convertirono al cristianesimo numerosi uroni stanziati lungo il fiume San Lorenzo. Contro gli uroni si formò presto una confederazione di cinque popoli irochesi, tra cui i mohawk, che creò gravi problemi ai missionari. Nel 1642 René Goupil venne ucciso dai mohawk e il suo compagno Isaac Jogues, liberato dopo mesi di prigionia e torture; nel 1646 Jogues tornò tra i mohawk assieme a Jean La Lande per una missione di pace, ma vennero entrambi uccisi. Seguirono altre uccisioni di gesuiti. Il gruppo di martiri canapo-americano venne canonizzato da papa Pio X nel 1930.
Le riduzioni, ovvero i villaggi della religione.
Le riduzioni costituiscono l’opera più nota che i gesuiti realizzarono nell’America Latina. Si trattava di villaggi in cui erano raccolti gli indigeni, in particolare i guaranì, nei quali i gesuiti insegnavano la fede cristiana, le norme di una vita civile e la coltivazione di piante produttive. Erano centri di civilizzazione e di difesa contro le razzie dei coloni spagnoli e portoghesi. Prima dell’arrivo dei missionari i guaranì vivevano da uomini dell’Età della pietra. Tutti i membri di un clan vivevano in un’unica grande capanna che fungeva da abitazione collettiva. L’agricoltura era molto povera e comprendeva solo la coltivazione della manioca. L’attività principale era costituita da ininterrotte guerre che culminavano inevitabilmente nello sterminio degli abitanti del villaggio sconfitto. Era ancora pratica corrente il cannibalismo rituale. Le riduzioni mostrano chiaramente le difficoltà che incontrarono i gesuiti nel conciliare indipendenza missionaria e governi locali. Le riduzioni miravano alla promozione materiale, sociale e spirituale degli indiani. I villaggi nati sotto l’impulso dei gesuiti si estendevano in Paraguay, Argentina, Brasile, Uruguay e Bolivia. Le riduzioni godevano di una notevole autonomia: gli indigeni erano esenti dalla giurisdizione dei funzionari regi e dipendevano direttamente dal viceré. Erano liberi da ogni servitù e dovevano solo pagare un tributo al governo di Madrid, consistente in una certa quantità di mate. D’altro canto, gli indigeni dipendevano totalmente dai gesuiti e il paternalismo era sviluppato al massimo. Nelle riduzioni il governo spirituale era in mano ai missionari mentre l’amministrazione civile, in teoria, era affidata ad alcuni indigeni. L’ingresso nel villaggio era vietato a tutti, eccetto al vescovo e al rappresentante del governo. Un minuzioso regolamento ordinava la vita delle riduzioni. In meno di tre generazioni gli indigeni erano passati da un livello di vita estremamente primitivo ad uno stadio di civiltà piuttosto elevato. La prima tipografia dell’America latina fu eretta in una riduzione.
STRUTTURA Le riduzioni si sviluppavano intorno a una piazza quadrata al cui centro c’era una grande croce e un’immagine del santo patrono. Dall’altro lato si trovavano la chiesa, le case per le vedove e gli orfani, la scuola, gli alloggi dei missionari e le officine; dietro la chiesa c’erano l’orto e il cimitero. Sul lato opposto vi erano le abitazioni degli indigeni, e nei lati restanti il Consiglio della Missione, una portineria, un ospizio, delle cappelle, un orologio solare e il carcere. Il villaggio era protetto da trincee e da un muro per respingere gli attacchi degli altri indigeni e le incursioni degli schiavisti, detti polisti o bandeirantes.
AMMINISTRAZIONE Il governo civile era gestito dagli indigeni. Vi era infatti un consiglio eletto per voto e composto di tre ufficiali, tre amministratori, alcuni ausiliari e i rappresentanti dei quartieri della Missione, tutti sotto l’egida di un cacique. L’amministrazione della giustizia spettava ai gesuiti. I reati erano rari e di conseguenza le pene minime. Non si ricorreva quasi mai alla prigionia o a condanne all’esilio, ritenuta la somma disgrazia.
ECONOMIA Ogni famiglia riceveva un terreno, ereditario, che forniva il sostegno alla famigli: vi venivano coltivate patate, mais, manioca, legumi, frutta e mate. I frutti delle altre aree, in quanto ritenute “proprietà di Dio”, spettavano alla comunità. In questi terreni comunitari gli indigeni dovevano lavorare due giorni a settimana. I centri comunali d’approvvigionamento fornivano ciò che mancava. A volte erano ammessi dei mercanti stranieri, per un periodo non superiore a tre giorni. Il commercio esterno, tra le Riduzioni e le altre province spagnole, era finalizzato al reperimento di introiti destinati al pagamento delle tasse alla Corona e all’acquisto di materiali e strumenti vari. Col tempo aumentò l’allevamento del bestiame nelle missioni ed il commercio ebbe un tale incremento tanto da arrivare a disporre di un mercato centrale a Buenos Aires, da dove si esportavano per l’Europa cuoio ed altri generi alimentari e utensili. Nella metà del settecento le importazioni erano spesso limitate da momento che le riduzioni erano diventate praticamente autonome.
EDUCAZIONE Per migliorare la vita degli indigeni furono introdotte nuove tecniche di agricoltura e di allevamento del bestiame. Si insegnavano elementi di architettura, si utilizzava la pietra da taglio e c’era una fonderia, l’educazione laica e religiosa era considerata indispensabile. Nel tempo vennero insegnate anche diverse arti come scultura, pittura, incisione, poesia, musica, teatro, oratoria e scienza. Contro quanti sostenevano che gli indigeni non fossero mentalmente atti a capire e ricevere i Sacramenti e limitati in tutto ciò che richiedeva una elaborazione mentale astratta e una originalità secondo i criteri europei, Padre Anton Sepp asseriva: “Ciò che hanno visto una sola volta, si può essere convintissimi che la imiteranno. Non hanno assolutamente bisogno di nessun maestro, né di direttori che li indichino o li chiariscano sulle regole delle proporzioni, neanche di professore che gli spieghi il piede geometrico. Se gli poni in mano una figura umana o un disegno, vedrai in poco eseguita un’opera d’arte, come in Europa non se ne può avere simile”.
CULTURA I gesuiti studiarono e migliorarono la lingua guaranì creando una scrittura con caratteri latini. Produssero una buona quantità di opere letterarie, inerenti soprattutto alla catechesi. In questo modo una buona parte degli indigeni fu alfabetizzata in guaranì, castellano e, solo gli indigeni più ragguardevoli, in latino. Gli altri erano educati attraverso l’insegnamento orale e l’arte. Nel 1700 fu creata la prima tipografia nella Missione di Loreto, in Argentina, e vi fu prodotto nel 1705, dall’indigena Juan Yapai, il primo libro stampato nel paese, un Martyrilogio Romano. In seguito vennero stampati anche altri libri, calendari, tavole astronomiche e spartiti. Alcuni indigeni appresero a parlare e a scrivere talmente bene da scrivere dei libri. E’ il caso del cacique Nicolás Yapuguay, della Riduzione di Santa Maria. Le Missioni in genere possedevano anche delle biblioteche. Quella di Loreto contava più di trecento libri, quella di Corpus Christi circa 400, Santiago più di 180, e Candelaria la cifra, stupefacente all’epoca, di 4.724 volumi.
Arte. Ci sono molte testimonianze sulla naturale inclinazione degli indigeni verso la musica. Padre Noel Berthold affermava che quando fratello Verger suonava l’organo rimanevano immobili, come in estasi, persino per ore. Molti indigeni diventarono esimi strumentisti oppure eccellenti costruttori di strumenti. Furono costituite anche grandi orchestre e cori, spesso rivali dei gruppi di formazione europea, invitate a suonare a Buenos Aires per le festività di Santo Ignazio di Loyola. Parte del lavoro catechetico dei gesuiti faceva ricorso al teatro per illustrare le verità religiose. C’erano delle sceneggiature dei drammi sacri, sulla vita dei santi e brani della Sacra Scrittura, talvolta erano presentate anche delle opere classiche. Anche nella pittura alcuni indigeni si distinsero. È il caso di Kabiyù, eccellente artista a cui è attribuita una Vergine dei Dolori, oggi a Buenos Aires.
La scultura merita una speciale attenzione, sia per il ruolo rilevante nel sistema di educazione e di catechesi gesuita, sia per la quantità dei pezzi rimanenti. Troviamo una commistione di tratti caratteristici delle diverse scuole artistiche europee e di elementi tipicamente indigeni, spesso visibili nelle fisionomie di alcune immagini, nelle posizioni ieratiche e negli arredi tipici. L’arte è stato il modo in cui le caratteristiche autoctone trovarono il modo di esprimere la loro peculiarità riuscendo a superare i rigidi schemi e le regole stilistiche imposte dall’esterno. Spesso le opere erano eseguite dai gesuiti, agli indigeni veniva dato il semplice ruolo di aiutanti o veniva loro affidata la produzione di opere minori . Però ci sono delle eccezioni documentate, come quella dell’indigena José, la quale nel 1780 realizzò una statua del Signore dell’umiltà e della pazienza, adesso nella chiesa di San Francesco a Buenos Aires, ritenuta uno dei capolavori dell’inizio dell’arte nazionale argentina.
Nell’architettura i gesuiti hanno introdotto una notevole organizzazione urbana. I loro villaggi erano muniti di ponti, irrigazione canalizzata, fontane per acqua e mulini. Le abitazioni, distribuite in gruppi regolari, erano inizialmente di argilla, poi furono di pietra, con varie stanze, focolari e tetti di tegole. Ma è nella erezione di chiese che i gesuiti si distinsero: lo stile utilizzato fu il barocco gesuita, o della controriforma, con linee sobrie esternamente, ma profusamente arricchite all’interno con altari intagliati e dorati, con oggetti di culto costituiti da metalli preziosi e gemme. La statuaria è nota per la sua impressionante vivacità e bellezza plastica.
Le difficoltà.
Il problema principale con cui dovettero scontrarsi i gesuiti fu l’ostilità che gli indigeni mostrarono nel voler andare a vivere nelle riduzioni. Molti di loro non riuscivano infatti ad abituarsi alla rigidezza e alle complessità della disciplina ignaziana, perciò ritornavano a vivere nella foresta. Altre volte c’erano dei gruppi portati controvoglia alle riduzioni, caso dei guaiaquì. Ci sono purtroppo casi in cui gli indigeni furono sterminati per aver resistito all’obbligo di andare nei villaggi; è il caso dei guenoa nel 1708. La situazione era aggravata dalle frequenti epidemie, dai periodi di carestia e dai numerosi attacchi da parte degli indigeni che abitavano fuori dalle riduzioni.
Soppressione e rinascita.
La Compagnia di Gesù dalla metà del Settecento incorse in un periodo burrascoso che in pochi anni la condusse dapprima alla cacciata dai territori di Portogallo, Spagna, Francia, Napoli e dalle colonie del Sud e Centro America, e poi alla totale soppressione. Motivo di questo declino furono i grandi successi ottenuti nell’attività apostolica, i nuovi metodi di apostolato, l’opposizione all’Illuminismo e al Giansenismo, la difesa di teorie in campo morale ritenute troppo lassiste, l’antipatia suscitata in taluni ambienti a causa della cosiddetta “superbia gesuitica”; ma soprattutto fu l’opposizione contro i gesuiti mostrata dalle corti cattoliche del Portogallo, della Spagna, della Francia, di Napoli e di Parma, che malvolentieri sopportavano l’azione dei gesuiti a favore delle popolazioni delle colonie americane, in quanto limitavano le possibilità di sfruttamento da parte di colonizzatori avidi, crudeli e senza scrupoli morali. La soppressione non poté avvenire durante il pontificato di Clemente XIII, un ardente difensore dei gesuiti, ma avvenne sotto il suo successore, Clemente XIV, sul quale le corti borboniche esercitarono una pressione talmente violenta da costringerlo a sopprimere la Compagnia di Gesù “per la pace della Chiesa”. Così il 21 luglio 1773 egli firmò il decreto di soppressione della Compagnia di Gesù, conosciuto come Dominus ac Redemptor.
Il Breve papale non esprimeva nessuna condanna dei gesuiti; da parte di essi per lo più non ci fu nessuna reazione e nessuna opposizione. Il generale della Compagnia, padre Lorenzo Ricci, accusato di non svelare i “tesori” dei gesuiti – che in realtà non esistevano – fu rinchiuso nel carcere di Castel Sant’Angelo. Soltanto in punto di morte (1775) padre Lorenzo fece una dichiarazione in cui affermava che la Compagnia non aveva dato nessun pretesto alla sua soppressione e che egli non aveva dato “motivo alcuno seppure leggerissimo” alla propria carcerazione. Con la scomparsa della Compagnia di Gesù, l’evangelizzazione in Asia, in Africa e nell’America subì un duro colpo, dal quale non si sarebbe ripresa se non faticosamente e in parte modesta. Sebbene scomparsa nelle nazioni cattoliche, la Compagnia sopravvisse nella Prussia di Federico II e nella Russia Bianca di Caterina II. Pio VII, il 7 agosto 1814, ridiede vita alla Compagnia con la bolla Sollicitudo omnium Ecclesiarum. La ripresa fu lenta e difficile, ma presto si aggiunsero ai gesuiti della Compagnia soppressa, restati fedeli alla propria vocazione, forze nuove formate secondo lo spirito e le regole del passato. Si ricominciò a fondare collegi, si riprese l’attività missionaria negli Stati Uniti, in tutti gli Stati dell’America Latina, in Cina, in Africa, nel Madagascar. Nel 1844 i gesuiti nel mondo erano 4.136 con 44 collegi e 37 missioni. I tempi però erano molto cambiati rispetto a quelli dell’antica Compagnia. Erano i tempi del liberalismo rivoluzionario, avverso alla Chiesa, in particolare al Papa e allo Stato pontificio. Erano i tempi del kantismo, dell’idealismo tedesco immanentista, del positivismo di Comte, del socialismo di Marx. I gesuiti si resero ben conto di quanto stava avvenendo in campo sia politico sia filosofico, senza tuttavia riuscire a vedere quello che di positivo e di giusto portavano con sé le nuove idee: un discernimento, questo, che era molto difficile in persone che pensavano con le categorie del passato. Avvenne, così, che i gesuiti si schierarono contro il liberalismo e il socialismo in politica e contro le nuove correnti di pensiero in campo filosofico. In particolare, i gesuiti schierarono le proprie forze in difesa del Papa. Questa attività dei gesuiti suscitò l’avversione dei Governi liberali, che in Francia, in Italia, nella Spagna li espulsero a varie riprese, impadronendosi dei loro beni e destinando i loro collegi e le loro case a scuole, università, carceri, tribunali e ospedali. Tuttavia queste continue espulsioni non impedirono ai gesuiti di crescere numericamente, di espandersi in ogni parte del mondo e di mantenere opere importanti, come l’Università Gregoriana a Roma. Dopo la prima guerra mondiale (1914-1918) sorsero i regimi totalitari (comunismo, fascismo e nazismo). La Compagnia di Gesù li combatté per la loro ideologia atea e anticristiana tanto fortemente che molti gesuiti finirono nei campi di concentramento tedeschi e nei gulag sovietici. Tutte le loro opere nei Paesi conquistati dall’Unione Sovietica furono distrutte.
Il fondo di Castro Pretorio.
A causa della soppressione del loro ordine, dell’espulsione dai paesi dove erano indesiderati e delle persecuzioni cui furono sottoposti, i documenti e le opere dei gesuiti furono distrutte o andarono disperse o furono trattenute. Di conseguenza la grande mole documentaria e letteraria prodotta nel corso del loro operato si trova oggi conservata in diversi istituti religiosi gesuiti, quale l’archivio storico della Pontificia Università Gregoriana. Una grande quantità di manoscritti gesuiti, per l’esattezza 1752, sottratti all’epoca della soppressione dell’ordine e provenienti principalmente dalla Biblioteca della Casa Professa del Gesù e dalla Biblioteca del Collegio Romano, è invece conservata nella Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, sita a Castro Pretorio. Il Fondo gesuitico costituisce il nucleo più consistente della Biblioteca Nazionale. La Biblioteca fu inaugurata il 14 marzo 1876 in un’ala del monumentale Palazzo cinquecentesco del Collegio Romano, sede dell’antica Bibliotheca Secreta o Major dei Gesuiti, che costituì il nucleo originario della nuova istituzione. Nel 1873, a seguito della soppressione delle corporazioni religiose di Roma, si aggiunsero i fondi manoscritti e a stampa di 69 biblioteche conventuali devolute al Regno d’Italia. Nonostante queste enormi difficoltà, i gesuiti proprio nel 1965 raggiunsero la quota più alta della loro storia: 36.038 soggetti. Durante il Secondo Concilio Vaticano, Giovanni XXIII scelse molti di loro come “periti” conciliari. Il loro apporto ai lavori e alle decisioni del Concilio fu notevole.
Tra indios e conquistadores.
Il ruolo dei gesuiti fu determinante non solo per lo sviluppo delle missioni cattoliche nel nuovo continente, ma anche nell’opera di tutela delle varie comunità di indios sottratte, grazie alle riduzioni, all’asservimento da parte dei conquistadores cui era soggetta gran parte della popolazione indigena dell’America latina. L’importanza dell’organizzazione delle riduzioni risiede nel fatto che l’opera di formazione religiosa era inserita in un grandioso programma di crescita civile, realizzato attraverso l’istruzione ed il lavoro. L’espulsione della Compagnia di Gesù dalle colonie spagnole, nel 1767, segnò la fine di un esperimento straordinario durato oltre un secolo e mezzo. Le comunità di indios ripiombarono nel buio dell’emarginazione e ai confini della storia.