In ricordo di Maria Schneider. Le amnesie e le occasioni perdute di Bernardo Bertolucci, scomparso a 77 anni.
Ci sono anime attraversate dalla storia, ci sono persone che esprimono un’epoca, la rappresentano semplicemente con il loro modo di essere, ne diventano nei dirompenti cambiamenti simboli, icone. Vi sono artisti ai quali non è riconosciuto appieno il talento, altri il cui pregio è offuscato dal rumore della notorietà, dal pubblico discredito di una reputazione controversa.
Al Festival di Cannes, nei giorni scorsi si è celebrata, invece, una carriera fortunata, di Bernardo Bertolucci – figlio d’un noto poeta autore Rai, gravitante nella cerchia di Longhi e Siciliano, Pasolini e Moravia -, vezzeggiato dalla critica, autore di Ultimo tango a Parigi, film reso famoso non solo per lo scandalo suscitato dalla censura che l’ha mandato al rogo, ma anche per le interpretazioni di Marlon Brando e di una giovanissima Maria Schneider, la fotografia di Vittorio Storaro, la musica di Gato Barbieri.
Le contraddizioni
Sulla Croisette, questo regista, per il quale nell’arco della carriera i riflettori non si sono praticamente mai spenti, nel prelevare il trofeo, lo ha dedicato a quegli italiani che hanno l’energia e la forza di combattere, di protestare, di criticare e indignarsi per lo stato di tremenda anestesia in cui versa il nostro Paese, addormentato quotidianamente dalle tv.
Le sue parole mi sono arrivate stridenti; mi torna alla mente di un altro suo film, Novecento, una scena raccapricciante, che oltre le trappole dell’ideologia e delle metafore d’antan, mi è sempre parsa, allora come oggi, inaudita quanto gratuita, e mostra una violenza estrema su un minore, ucciso dai pedofili interpretati da Donald Sutherland e Laura Betti. Mi viene immediatamente da pensare anche a Maria Schneider, raffigurata in una foto piuttosto recente, in qualche occasione pubblica, sullo sfondo c’è un panneggio lilla: lei sta come in ascolto, i lunghi capelli ricci con la frangetta, distintivi di lei, come una trama di merletti incorniciano il volto ancora bello, la sigaretta è tenuta tra le dita con signorile grazia, mignolo e anulare piegati verso la bocca, in attitude riflessiva; il suo sguardo deciso, assolutamente non provocatorio ma pure intransigente, induce ad essere onesti, obbliga alla lealtà.
Ritorno con il pensiero a una giornata di tiepido sole dello scorso inverno, in cui la notizia della sua scomparsa mi lasciò senza fiato, proprio mentre mi recavo al funerale di una giovane donna mancata per una crudele malattia; continuavo a pensare a lei sulla salita che conduceva alla chiesetta di una clinica romana, attorno a me vi erano tante ragazze, poco meno che ventenni, toccate anzitempo dal dolore.
L’eterno femminino
La ricordo aperta, schietta, forte e vulnerabile, coraggiosa, proprio una bella persona. Quando l’ho incontrata in occasione di un omaggio a Jacques Rivette, non consideravo l’ingrato film diretto dal regista oggi impalmato che l’ha resa così nota e l’ha fatta tanto soffrire, pensavo invece alla sua misteriosa e affascinante presenza, che negli anni turbinosi hippie e in quelli immediatamente seguenti, aveva riempito lo schermo. Con il suo modo nuovo di essere donna, sicura di sé e curiosa degli altri, esemplificava una stagione particolare, portando con sé un senso di libertà, e come la promessa, fors’anche l’ingenua fiducia, che le battaglie giuste avrebbero potuto veramente cambiare il mondo.
Per noi adolescenti di allora, che sprezzavamo l’eterno femminino – lo gridavamo in piazza, “non più puttane, non più madonne, finalmente solo donne!” – se non ardua, certamente faticosa risultava la conquista di una nuova identità femminile. Non a caso in una società repressa come la nostra, diversi registi italiani per i loro film ( Professione reporter, Cari genitori… ) avrebbero cercato in lei, anziché nelle interpreti nazionali, l’immagine di una donna moderna, che in Maria appariva reale, immediata, naturale, e senz’altro ci aiutava a diventarlo.
Quanto lontana la sua figura dalla vaporosa, infiocchetta soggiogata donna-oggetto, radicata nell’immaginario maschile italico, insultata ora con livore ora con pericolosa bonomia, confluita per decenni nei film porno-soft, riproposta dal nostro attuale Primo ministro sulle sue reti televisive, di recente con l’uniforme da velina.
Prigioniera del film
Tornando al regista gratificato da una palma d’onore, se per lui Ultimo tango a Parigi fu un trampolino di lancio per avventure di respiro internazionale, a Maria Schneider invece il personaggio di Jeanne e quel film rimasero addosso, investendo pesantemente il suo privato, condizionando in senso negativo la sua vita. Anche il cachet che percepì fu irrisorio, senza diritti, per un film che tuttora continua a registrare incassi.
Con l’arguzia delle sue trancianti definizioni, centrando con una lucidità degna di uno psicanalista una controversa questione, affermò che il suo personaggio doveva essere maschile, ma che il regista non aveva avuto “il coraggio omosessuale“ di tenerlo così. Se avesse avuto realmente quell’audacia, se fosse andato fino in fondo per la sua strada, portando liberamente sullo schermo Jean al posto di Jeanne, avrebbe dato vita a un atto rivoluzionario, uno scossone per l’Italia bigotta che ancora oggi fatica ad affrontare quel tema. Invece è prevalso il conformismo.
L’omosessuale represso resta l’altra faccia del maschio italico misogino avido e sopraffattore. Per ambedue forse solo la mamma non è una puttana.
Quanto doveva insolentire Maria Schneider, questa donna indipendente, emancipata, paritaria anche nella sessualità; quanta paura – quando non invidia – doveva suscitare in essi la sua bellezza. Incapaci di comunicare con lei, nel segno di un disagio, le si voleva impedire di vivere libera, e in qualche modo era più semplice depredarla. Lo dico con amarezza. Sopruso, coercizione, ancora oggi la notoria scena del burro contiene qualcosa di così nefasto e appare esattamente per quello che è, detto senza mezzi termini, una schifosa violenza sessuale: regista e attore, in due sulla preda! È una scena che oltraggia, qui una donna, come in Novecento si offendeva atrocemente senza ritegno un bambino.
Un corpo da pubblico dominio
A quanto riferiva lei, dopo il ciak, non c’era stata una parola di conforto o di scusa all’interprete Maria da parte del regista o del co-protagonista, niente che provasse ad alleviare il peso di quanto aveva subìto per Jeanne, la ragazza del film, secondo quel becero maschilismo cinematografaro di quegli anni. Maria dichiarò più volte di essersi “sentita umiliata, e come violentata da Marlon e Bertolucci. Ancora oggi ne porto con me le sofferenze”. Fu solo l’inizio. Ciò che l’avrebbe relegata a una vitalità da antagonista, a un ruolo che non aveva scelto per la vita, fu la perversa reazione di un’Italia falsa, provinciale, intrisa di meschino moralismo; per meglio dire fu un’azione inflitta contro una donna da “castigare”, una che catalizzava l’odio a causa della sua bellezza congiunta alla sfrontata indipendenza. Penso anche a un’altra donna bellissima e sfrontatamente indipendente, Franca Rame, vittima di uno stupro.
Non protetta – per paradosso anche le femministe non l’avevano saputa capire -, tanto più Maria Schneider si ribellava ad esser relegata a “corpo sacrificale”, tanto più lo stigma le veniva inferto in modo reiterato, tanto più era esposta, per essere collocata nell’angolo peggiore, “quello più scomodo della fama”.
Durante un viaggio in auto verso Napoli, con lo stesso shock vissuto anni prima, Maria raccontò ancora rabbiosa dell’angheria subita da un inserviente di una clinica psichiatrica dove si era recata per visitare un’amica; le avevano messo qualcosa nel caffé per intorpidirla e poi l’avevano esibita da infami, con scabroso sadismo, alla finestra, come alla gogna, in pasto ai fotografi.
Notorietà crudele, un corpo “di pubblico dominio”, sull’orlo dell’esaurimento, Maria ricorse, in periodi bui, a vie di fuga pericolose, ma ancora seppe resistere con coerenza, onestà e coraggio, conservando la forza di combattere.
Bertolucci manipolatore?
Se con Marlon Brando si era ritrovata – le aveva confidato di essersi sentito anche lui manipolato dal regista e una sua lettera sembrava quasi riscattarla dai dispiaceri più profondi che quel film le aveva provocato-, da Bertolucci invece non ebbe mai alcun segno.
Maria Schneider è stata insignita di recente in Francia del titolo di Cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere dal ministro della Cultura Frédéric Mitterrand; della sua carriera di attrice restano molte pellicole pregevoli, e chissà quanti altri film avrebbe potuto interpretare se non fosse scomparsa prematuramente.
Francamente non so se Bertolucci sia “il sopravvalutato regista che non ha fatto mai più niente che avesse lo stesso impatto di Ultimo tango“ di cui diceva Maria nelle interviste; né so se è vero quanto pensava lei, e cioè “se non fosse stato per Marlon Brando e la sottoscritta, quel film sarebbe stato un insuccesso”; buone ragioni oggi presentanoin Costa azzurra il regista emiliano all’altezza di Visconti, Antonioni, De Sica, Rossellini, Petri, Olmi…
Ho letto che Bertolucci alla morte di Maria, ha dichiarato di rimpiangere di non averle chiesto scusa. Scusa di cosa?, vorrei chiedergli. Per avere usato senza scrupolo il suo corpo? Per porre rimedio al tardivo parziale riconoscimento di un “rapporto forte e creativo avuto durante le riprese”? Pur così giovane, con grande intuizione era stata, infatti, lei a imporre il finale del film: quella Jeanne vince su un maschio smarrito e violento, non certo nell’ucciderlo, ma nel gridare una distanza, il suo rifiuto: “Non lo conosco!”.
Scusa di che? Per la responsabilità di non averla voluta o saputa proteggere dall’assalto famelico e rapace dei media durante i tour di promozione del film, per non aver dichiarato in quelle occasioni, al mondo, la finzione?
Di cosa avrebbe dovuto e dovrebbe chiederle scusa? Di aver avuto memoria corta? Di uno stato amnesico appunto.
Un’occasione perduta
Quale straordinaria opportunità ha avuto a Cannes Bertolucci, che grande occasione gli è sfuggita di pagare il suo tributo a Maria, scomparsa tre mesi fa a soli 58 anni, di risarcirla di un trauma, di un danno lungo una vita e, se non dedicarle il premio, almeno spendere una parola per lei.
In questa Italia fatta di provincie, con tutto il senso deleterio che si porta la definizione, il tempo ha facile gioco nel confondere e mischiare le carte; quest’uomo ormai vecchio e malato parla dunque della dignità degli italiani, tirando in ballo la parola “anestesia”; sì, un anestetico abolirà artificialmente la sensibilità al dolore, procurando tranquillità, e attenuerà pure nell’animo un qualche turbamento… solo temporaneamente però, giacché non è un rimedio, non guarisce.