Una nave appare improvvisa nella notte. Improvvisa a se stessa, non più a dei barcaioli in mezzo al mare che vagano nella nebbia. I suoi passeggeri si sono imbarcati sapendo che la meta è un posto imprecisato del Mediterraneo: una meta prevista ma imprevedibile, dice Fellini, spiegando che proprio per questo essi si sono imbarcati.
Sulla Gloria N. ci sono attori, cantanti, nobili etc, forse una società in decadenza, stordita dal benessere, incapace di accettare quello che sta al di fuori della sua cerchia del privilegio. Ma mentre la nave va, nonostante l’inconsistenza dei suoi abitanti e della meta, i Balcani si infiammano e il Capitano è costretto ad accogliere a bordo dei profughi serbi.
Che cosa si può intendere per sistema?
Tentiamo una definizione semplice: un sistema è un insieme di relazioni interdipendenti che presenta dei confini con un ambiente esterno.
Potrebbe essere visualizzato anche come una nave, se volessimo, circondata dal mare.
In un certo senso il sistema ha bisogno di un ordine, mette in campo un ordine delle cose, che si mantiene tale attraverso un controllo.
E’ vitale, funziona, quanto più considera ciò che c’è al suo interno (spesso, invece, il sistema trascura i suoi membri o le parti che lo compongono) come ciò che c’è al suo esterno. Considera nel senso di averne un’intuizione o, quantomeno, l’idea di una sua inevitabilità. Perfino necessaria.
Intendo dire che se un sistema è capace, mentre si organizza e si difende, di pensare che al di fuori del suo spazio e del suo tempo ci sono e ci saranno dei movimenti, esso, allora, non si dimostra solo prudente (una delle virtù dimenticate più belle, se accompagnata al coraggio) ma soprattutto intelligente.
Una nave appare improvvisa vicino ad un porto del Mediterraneo. Porta talmente tante persone da sembrare una nave folle, un’immagine irreale. I profughi sono diventati così numerosi da aver cancellato gli attori, i cantanti, i nobili: non si vedono più tra quella massa che sembra, però aver preso il loro carattere, sembra essere diventata una massa fantasma.
Dove saranno finiti, allora, i vecchi fantasmi? Li avranno buttati a mare o staranno sepolti nella stiva?
Quando i miserabili scendono a terra, la terra li circonda per setacciarli. Poi, una volta appurato che i vecchi fantasmi non ci sono più, i nuovi vengono rispediti indietro. Il loro destino è imprescindibile da quello degli altri. Senza gli altri, i nuovi non possono esistere.
Così i nuovi cominciano a vagare, e si affidano ancora al mare per cercarli, certi che, se essi non li troveranno e ne prenderanno le sembianze, non potrà esserci futuro per loro.
E la nave va.
Barcolla, appare e scompare, approda e riparte, senza sosta e senza meta.
Finché un giorno, è qui. O, almeno, così sembra.
Se ho raccontato questo, se sono passato da Fellini al primo sbarco degli albanesi in Italia, è perché vorrei parlare de “La nave dolce” di oggi.
La storia è una tentazione irresistibile. Silenziosa procede come una sentinella del tempo, come una nave fantasma che vaga nell’oceano e sembra che vada avanti e indietro per segnalarci qualcosa.
Noi la guardiamo e ne restiamo, a volte, incantati, altre inorriditi. Perché la capiamo e non la capiamo, certo, o perché non vogliamo credere a quella meta a cui sembra diretta. O perché essa si trasforma e resta uguale, seducendoci ma anche angosciandoci.
Provare a seguirla è pericoloso, si rischia di perdersi la corrente e il piacere del mare, della traversata. In fondo, forse, la sua presenza, la sua apparizione, perfino la sua scomparsa, è questo che ci spronano a fare: a dimenticarla, a smettere di seguirla, suggerendoci l’abbandono al mare o ad una dimenticanza fertile.
Tutto ricordare e tutto dimenticare diceva Kantor chiudendo il ‘900. Ed è con questa metodologia che mi appresto a parlare di un fatto dietro il quale intravedo un linguaggio così preciso da spaventarmi a morte, nonostante l’abitudine che ho di esso.
Questa lunghissima premessa era invitabile. Se si vuole scrivere qualcosa contro il potere bisogna avere un metodo, consigliava qualcuno; considerarlo prima nella sua sfera più astratta e poi scendere a terra. O viceversa. Altrimenti l’una o l’altra cosa, da sole, potrebbe servire davvero poco.
Oppure, farlo gareggiare con l’immaginazione, con una forza che non conosce gravità.
Nell’immaginazione, mi piacerebbe usare la stessa energia del potere per farlo cadere, così come si pratica nelle lotte orientali, Cadere? Diciamo lasciargli fare una capriola, che sarebbe già un meraviglioso risultato.
Dunque, proviamo ad usare le sue parole, proviamo a giocare una partita leale, guardandolo bene in faccia: forse, già solo evitare la slealtà è una maniera di contrastarlo.
Prima, però, ancora una premessa, questa volta breve.
Non mi interessano di questa vicenda di cui è protagonista la Apulia Film Commission pugliese al soldo del Governatore Niky Vendola , le questioni giuridiche, eventualmente condannabili sul piano legale. Di questo si occuperà, se è il caso, la Magistratura. Né m’interessa l’aspetto etico della vicenda, o quello umano. In realtà, le due cose mi stanno molto a cuore, penso per esempio, che Angelo Amoroso D’Aragona il regista coinvolto, potrebbe anche arrivare a suicidarsi per il dolore che gli da questa vicenda e questo sarebbe una sconfitta gravissima per tutti.
Ma vorrei parlare invece del linguaggio del potere e di cinema, del sistema cinema italiano.
E della deriva di questo paese. Di come abbiamo distrutto il miracolo… realizzandolo.
A volte, pensando a Pinocchio, mi appare il campo dei miracoli e lo vedo abbandonato, nella profondità di una campagna. Allora mi sembra di vedere su quel campo, Geppetto, rimasto solo, che si interroga, guardando le nuvole: ma dove sono tutti? Dove sono andati? Saranno andati a giocare come balocchi?
Scrive Maselli, Direttore di AFC:
In un Paese non condizionato da un dibattito politico bassissimo, da sommovimenti malpancisti, da sedicenti guru della comunicazione che si trasformano in arruffa popolo, da moralisti attenti a misurare l’altrui successo come un proprio insuccesso invece che occasione di crescita collettiva, da una sinistra critica, ma solo per suicidarsi acriticamente; un’operazione produttiva simile avrebbe dovuto essere accolta da un coro unanime di approvazione e dal desiderio, innanzitutto, di vedere l’opera, diretta da un grande cineasta internazionale che, in quanto tale, ha il privilegio di adottare uno sguardo non condizionato dal (bassissimo) dibattito locale.
Una delle metodologie più usate dal potere, paradossalmente, è quella del vittimismo.
La ragione è semplice: se anche io, che posso fare quello che voglio, faccio la vittima, allora gli altri che possono poco o niente, si sentiranno uguali a me. E la loro frustrazione, la loro rabbia si attenuerà. L’arte sta nel far sentire insieme la differenza e la similitudine. Troppa differenza crea appunto, invidia e rabbie pericolose. Troppa similitudine non fa sentire il potere del potere, su cui si fonda il potere.
Del resto anche i potenti sono umani, soffrono, si amareggiano di fronte all’invidia come di fronte all’indifferenza. E, dunque, cedono alla lamentela.
Nelle dittature è difficile che il potere si lamenti. Anzi esso, come si sa, tende costantemente all’autoesaltazione. All’autocelebrazione. Nella democrazia invece l’arroganza deve andare insieme all’umiltà, diciamo, meglio, alla disponibilità; deve nascondersi e mischiarsi. Per questo è più difficile vederla. Il passaggio da una democrazia ad una finta democrazia sta qui, in questo celarsi dell’arroganza a tal punto da diventare invisibile e dunque non produrre un reale dissenso, ma solo invidia.
L’arroganza si cela, appunto, nel vittimismo e nell’apparente disponibilità, e così disarma il dissenso alla base. Per potersi conservare, il potere, in una democrazia, deve uniformare in maniera subdola, deve “lavorare” per creare una società sempre più conforme e pigra che, però, diventi tale senza neanche accorgersene. Deve lavorare da dentro, verrebbe da dire. Questo sta avvenendo nelle democrazie occidentali ed ovviamente il sistema di comunicazione di massa e la società dei consumi, che già, come loro prima missione, hanno quella di uniformare le persone, aiutano questo processo. La finta democrazia, quindi, si nutre di ipocrisia. E, in una società ipocrita, la verità diventa una questione inutile, una questione non tanto scomoda, quanto proprio del tutto inutile.
Ma poi, qual è questa verità? Bè, qui si rischia di fermarsi e allora è preferibile dire, semmai, la ricerca della verità che, forse, mettendo in campo il meglio dell’uomo, rappresenta già un’occasione di grande significato.
Ma ora torniamo alle parole del Direttore. Mi sembra che esse contengano, in poche righe, tutta una serie di atteggiamenti e di questioni molto significative. Un compendio della mentalità del sistema culturale contemporaneo.
Lasciamo perdere l’elenco che egli fa delle cose negative che condizionerebbero l’atmosfera sociale impedendo il successo dell’operazione (in realtà il successo c’è stato e l’operazione-film a cui il Direttore fa riferimento, ovvero La nave dolce di Vicari, è stato presentato in questi giorni al festival di Venezia, come si sa, ottenendo riconoscimenti e approvazioni). Lasciamo, quindi, perdere l’elenco che si riferisce al dibattito politico bassissimo, ai sommovimenti malpancisti (che saranno mai?) etc., perché ognuna di queste “ragioni” dovrebbe essere discussa e, quantomeno, chiarita un po’ di più.
E concentriamoci sul passaggio di tono che va dal vittimismo all’arroganza con una continuità e una facilità che, appunto, svela, a mio parere, come queste rappresentino due facce della stessa medaglia.
… un’operazione produttiva simile avrebbe dovuto essere accolta da un coro unanime di approvazione e dal desiderio, innanzitutto, di vedere l’opera, diretta da un grande cineasta internazionale che, in quanto tale, ha il privilegio di adottare uno sguardo non condizionato dal (bassissimo) dibattito locale.
E qui parlerò di una cosa delicata: questo desiderio di essere accolti da un coro unanime di approvazione svela che il Direttore ha l’anima del Creatore. Dell’artista, e non tanto quella del manager. Un manager sa benissimo che il pubblico non è uno, che, anche nella più sofisticata società di massa, un’operazione potrà piacere a qualcuno e meno ad altri. Le regole del marketing, infatti, servono a questo, a indirizzare le scelte verso un pubblico potenzialmente interessato (o da conquistare) e certo, ad “educarlo”, affinché si abitui al prodotto offerto. Ma non si può pretendere il coro unanime. Solo gli artisti hanno questa ingenua, romantica ed egocentrica aspettativa!
Il fatto è che Maselli non è una mosca bianca, il cinema italiano, infatti, è in mano ad artisti mancati che sono diventati produttori. Per quale motivo essi hanno fatto questa scelta, lasciamo stare… Prova di ciò è il fatto che, quasi mai, un produttore italiano decide di fare un film perché pensa ci possa essere un pubblico interessato, facendo, quindi, il rapporto tra investimento (economico ed energetico) e possibili entrate. No, il produttore italiano fa solo i film che lui sente e pensa debbano essere fatti. Esattamente come un autore. E si aspetta il successo.
Si potrà obiettare che il gradimento del pubblico ormai è diventato relativo: un film viene imposto al pubblico attraverso la distribuzione o le televisioni e dunque il mercato non è reale, non dipende dal gusto reale del pubblico, se non in una minima parte. Vero.
Quello che conta, infatti, ormai non è neanche più tanto “sentire” un film ma costruire un progetto in linea con il sistema, in modo da sentirsi dentro di esso, capaci, “adulti”, forti, concreti.
Naturalmente ci vuole un regista (perché si deve salvare la “tradizione” della libera espressione o del diritto d’autore, altrimenti la Siae che ci starebbe a fare?) e una storia “umana”. Il regista deve essere famoso o deve essere all’opera prima, la storia deve essere riconoscibile ma anche pepata, come lo è la porchetta di Ariccia o le friselle salentine.
E poi ci devono essere gli attori, il cacio sui maccheroni, senza di essi non ci sarebbe alcun gusto!
Inutile ora parlare di come si faccia ad entrare in questo sistema…. Lo sappiamo tutti, perfino il bidello del centro sperimentale. C’è chi deve lottare contro il proprio nome, per farsi spazio, chi deve leccare la politica nonostante la puzza che emana, chi è talmente rassicurante che, appena lo vede, il sistema lo adotta come fosse il figliol prodigo ritornato all’ovile. E chi si iscrive direttamente all’ordine degli eletti o dei capetti per avere la patente e non pensarci più.
Però, c’è un però finalmente, i soldi sono sempre meno e gli artisti sempre di più, così la competizione tra questi giganti che manovrano la società italiana (facile, credo, capire a chi mi riferisco), in definitiva, rende l’ambiente, meno male, ancora un po’ incerto e frizzichino.
In questo paesaggio così solare, dunque, il Direttore sceglie un grande cineasta internazionale che, in quanto tale, ha il privilegio di adottare uno sguardo non condizionato dal (bassissimo) dibattito locale.
Conosco Vicari dai tempi dell’Università a Roma. Insieme, lottammo nella pantera, scoprendo che il Prof. Marotti nascondeva sopra al teatro Ateneo un arsenale di telecamere e sale di montaggio, tutte per lui. Nel 1990 eravamo più inesperti, tuttavia ce lo aspettavamo. Vicari poi si mise a fare cinema ed io teatro. In pochi anni io diventai più povero e fragile e lui più forte e ricco. Era comunista allora e, in questi anni in cui si è fatto valere, credo, sia rimasto tale. La scelta di far nascondere al protagonista del suo film Il passato è una terra straniera i soldi nel Capitale di Marx
mi è piaciuta. I soldi a Bari oggi li nascondono i comunisti, figli di borghesi, nei libri che non leggono più!
Non voglio esprimere valutazioni sul valore di Daniele. Dovrei farlo, in realtà, non solo perché le mie valutazioni possono essere interessanti per lui più di quelle che potrebbe tentare qualsiasi critico, ma perché se noi registi ci confrontassimo parlando di noi a noi, renderemmo più interessante e vero il paesaggio, favorendo anche una maggiore serietà e rigore da parte di tutte le altre figure che operano nella cultura. Naturalmente questo confronto avviene, ma solo nel proprio intimo o nei cenacoli e non vis à vis, diciamo. E questo non è costruttivo, il parlare di dietro alimenta il gossip (che si sta mangiando tutto) e la fragilità delle persone. Infatti, in Italia tutti si offendono molto facilmente e non reggono alcun attacco o alcun elogio!
Comunque, non esprimerò qui valutazioni sul suo lavoro, anche perché non ho visto La nave dolce.
Quello che mi interessa è solo dire che uno diventa un regista internazionale se va a lavorare anche all’estero, se si confronta con altri paesi e collaboratori non italiani. Se ha molto viaggiato. Non tanto, se i suoi film arrivano nei festival internazionali, sempre più finti e inutili. Credo che Daniele sarà d’accordo. E che lo sguardo straniero non si ha solo perché non si è pugliesi: è una tale banalità questa! Tra l’altro i pugliesi sono emigrati tanto negli ultimi cent’anni!
Prima di tutto che cosa vuol dire avere uno sguardo straniero? Potrebbe significare avere uno sguardo distaccato? Il distacco, nel cinema, si ottiene con il campo lungo. Non solo, naturalmente: si può anche stare molto vicini ad una storia, ad un personaggio, provare molta empatia ed essere insieme distaccati. Ma i campi lunghi nel cinema contemporaneo sono sempre più rari.
C’è una tale ansia di penetrare, di assediare, oggi, che il distacco (metafisico o semplicemente narrativo) sembra essere assente. A volte quest’ansia si esprime con l’immagine, a volte con il suono. Forse il cinema, in sé, è già distacco e riconoscere questo, lavorare su questa sua intima essenza e possibilità, vuol dire esprimere un cinema interessante.
Che oggi, a mio parere, è rarissimo.
Brodsky ha scritto che l’esilio non è una categoria né geografica né politica ma semmai metafisica. La cosa, io credo, vale anche per il distacco.
Il distacco non è una questione geografica. Il distacco si persegue con l’esilio, con la sofferenza, con l’ironia, con l’intelligenza, con il lavoro su se stessi, non tanto con un’appartenenza geografica o ad un fantomatico sistema internazionale. Anzi, mondiale!
E poi di quale bassissimo dibattito locale parla il Direttore? Esiste un dibattito? Un dibattito sullo sbarco degli albanesi del 1991? Mi scuserà, il Direttore, ma io non ho proprio sentito parlare nessuno di quest’argomento, nell’ultimo ventennio. Si una volta ho incontrato Amoroso D’Aragona che mi parlò del suo progetto e con una velata umiltà mi disse che non sapeva come affrontare narrativamente il tema e il materiale che aveva. Ed io, forse per pudore o per rispetto, lo ascoltai in silenzio, dunque non ci fu nessun dibattito… in quell’occasione.
Comunque, se anche ci fosse, il livello bassissimo in cosa si vedrebbe? Sarei curioso di saperlo non perché pensi che nel Sud ci siano fior d’intellettuali o un fervore ed una vitalità (così spesso “cantata” dal sistema Puglia quando, invece vi fa comodo) ma perché vorrei capire cosa è alto e cosa è basso per lei. Visto che lei dirige un’Istituzione pubblica che, giustamente, non solo sceglie chi finanziare e chi rifiutare ma anche deve pensare ed ideare. Certo, mi permetto di suggerire, c’è una differenza tra l’ideare, il pensare, il decidere scegliendo autori a cui affidare il compito di parlare del mondo, quali essi siano e da dove essi vengano, e il pensare etc. per realizzare progetti a vantaggio di se stessi (prendendosi, pure, meriti ingiustificati). Dico ingiustificati, perché l’idea di fare un film su quello sbarco non mi sembra l’abbiate avuta voi per primi!
L’intelligenza è stata rara nel mondo e dunque non è possibile che essa diventi mai sistematica, però può accadere, ed è accaduto nella storia, anzi nelle tante storie del mondo, che la mediocrità sia anche “intelligente”. Sia realmente ambiziosa.
Non si può andare al potere senza ambizione ma non si può mantenere il potere senza ambizione. E l’ambizione stimola l’intelligenza. Per questo ci sono sistemi che si aprono o sono in grado di reagire al “mare”, paradossalmente, proprio perché vogliono “controllare” e mantenersi a lungo.
Ma qui non mi sembra si tratti di un’apertura e non mi sembra, neanche, la solita operazione della intellighenzia di sinistra che in nome della storia o della memoria costruisce spettacoli “impegnati” per le masse, così malfatti ed enfatici da essere più tristi delle masse. Qui mi sembra che il vostro volere-potere abbia piuttosto peccato di vanità (un peccato generale di questi tempi e dunque poco riconoscibile nelle sue conseguenze); e abbia chiuso un affare da 280.000 euro, di cui prendersi il merito, immaginando, semplicemente, il solito silenzio generale.
E vorrei aggiungere un’ultima cosa. Ho letto che il Prof. Cassano avrebbe scritto che su questo evento o addirittura da questo evento dello sbarco, si sarebbe potuto costruire un immaginario del sud. Ecco, vorrei capire che significa: intanto, perché l’immaginario ha bisogno di un punto di partenza? E/o di una sola radice geografica o culturale, che sia? Poi, perché uno sbarco e una prevedibile disorganizzazione emotiva, politica, sociologica, che lo ha accolto, dovrebbero essere appannaggio di un’identità territoriale locale, piuttosto che nazionale o mondiale? Nell’89 il mondo si aprì, ma le questioni del ‘900 rimasero irrisolte. E sono tutte ancora qui, a pulsare, dentro questo tremore costante del pianeta. Non sono i mercati a muoversi, oggi, come profughi assetati, ma gli assetati che cercano ancora l’apertura delle acque. Questa nostra penisola, paese mancato e fragile, da secoli aveva visto sbarcare schiavi, profughi e avventurieri. E nonostante la paura, riuscì a esorcizzare i fantasmi mettendoli nelle pietre, nei lazzi, e perfino nelle chiese intoccabili. Un territorio antico il nostro, così attraversato e stratificato da mettere insieme Inferno, Purgatorio e Paradiso; un territorio proteso, idealmente e fisicamente, verso il mare, verso il mistero.
Ah, che meravigliosa vocazione avemmo un tempo, quella di abbandonarci e “dissolverci”! Ma poi, abbiamo cercato di costruire e non più di viaggiare e morire, e abbiamo fatto danni, distruggendo un paese baciato dal Fato.
Pochi anni prima di quello sbarco, di quella massa, un bimbo moriva in un pozzo, senza che nessuno riuscisse a salvarlo. Da lì è cominciata la grande debacle.
Della massa, non dell’io. L’io era già morente e quello a cui stiamo assistendo oggi non è che l’agonia di un cadavere. La massa invece va. Avanza, barcolla ma resiste.
Il cinema dovrebbe disinteressarsi dell’uno e dell’altra. Dovrebbe fotografare lo spazio e basta.
Essere archeologia di se stesso e di questo pozzo, in cui siamo finiti tutti.
E non ci vogliono i soldi, caro Amoroso D’Aragona per fare un film, basta abbandonarsi alla disperazione. O guardare in alto.
E invece a “sentire” lei, caro Direttore, viene da pensare che siano il regionalismo, il provincialismo, l’egoismo, il vendolismo, le vere motivazioni, che stanno dietro a questa nave dolce. Oppure, meglio, la superficialità. La superficialità di pensare ad un’identità e a un interesse di un territorio, senza volere conoscere a fondo le sue paure e i suoi desideri, usando, dunque, il sud e non liberandolo, non aiutandolo a svilupparsi veramente. Non ascoltandolo, ma scambiando l’efficienza con un fare ansioso e ambizioso, dedito fondamentalmente solo ad entrare -e ora a rimanere o guidare – la nave dei privilegi.
E non basta, non può bastare, il pensiero pragmatico che voi state finanziando la cultura in controtendenza rispetto al resto del paese, per giustificare questa politica che risponde, è vero, alla mentalità italiana, alle logiche della sua classe dirigente (economica e culturale) ma che non produce alcun cambiamento sostanziale, vanificando, a mio parere, anche quella parte di buone intenzioni.
Mi sembra di assistere ad una marcia verso Roma. In un paese, però, che non ha più un centro e una periferia. Che sembra girare continuamente su se stesso, come un cane che vuole mangiarsi la coda. Molti applaudono sulla strada, dimenticando che l’Appia, in segreto, tendeva all’oltre. Non finiva a Brindisi. Perciò accontentatevi, almeno, non vogliate il plebiscito, se no vi annoiate pure. Totò vendeva la fontana di Trevi ma sapeva di rischiare qualcosa. Che c’erano le guardie e i ladri.
Ora è tempo di grandi offerte per noi: trulli, masserie, orecchiette e bombette mafiose, va bene tutto, se i turisti della cultura abboccano. W il prodotto tipico, w la porchetta di Ariccia con i maiali che vengono dalla Spagna, w La nave dolce con il regista internazionale, da oggi avremo anche gli albanesi come prodotto tipico e lo venderemo, lo venderemo a tutto il mondo. Perché, con i soldi guadagnati, dobbiamo fare un monumento pure a Mao Tse Tung!
P.S.
La nave riappare.
I miserabili sembrano un po’ cambiati. Stanchi, piuttosto disillusi, sembrano però nascondere qualcosa. Forse, questo loro vagare, gli ha consegnato un’ipotesi: un’ipotesi inconscia, direbbe qualcuno, non ancora, del tutto, riconosciuta, eppure percettibile. Del resto la ricerca è durata quasi tutta la vita e, anche se non li hanno trovati, o se non hanno trovato una patria, essi hanno pur vissuto. Dunque è come se, mare facendo, essi abbiano cominciato ad accorgersi che, senza patria e senza “padroni”, la vita è comunque possibile. Perfino dolce.
Qualcuno diceva che il potere logora chi non ce l’ha. Forse è vero, ma questo logorio dovrà portare a qualcosa prima o poi. Alla depressione totale? All’abulia universale? E se invece portasse al vuoto? Se invece portasse a rimanere, semplicemente fermi, in mezzo alle macerie?
Di fronte ad un mondo immobile, gli uomini, forse, potrebbero svegliarsi, potrebbero ricominciare a guardarsi intorno, azzardando qualche passo e da qui riscoprire di poter trascorrere l’esistenza esplorandola e non inibendola.
Se questo accadesse, i pochi al potere ne avrebbero invidia e vivrebbero il loro stato come (dentro) uno strano stato nostalgico. Si ammalerebbero di desiderio del nulla. Di desiderio di perdersi, nel mare.
E il nulla è curativo, perché contiene l’infinità possibilità di cui l’uomo non può fare a meno. Anche se questa infinità possibilità, certo, potrebbe bloccarlo, per sempre.