Il percorso della “manovra di natale” alla Camera non è stato semplice, ostacolato da una miriade di emendamenti, presentati dai vari gruppi nel tentativo di salvare la faccia con l’elettorato. Il voto di fiducia, infatti, mette la camicia di forza ai grandi partiti, costretti a cimentarsi in un difficile equilibrismo, tra l’inevitabile appoggio al Governo e la scottante necessità di mantenere in vita i rispettivi cavalli di battaglia.
I piccoli, invece, possono svincolarsi da questa logica al fine di riguadagnare un certo grado di consenso alla base, anche se lo spettacolo offerto in aula dalla Lega, con tanto di insulti gratuiti e cartelli ultra populisti, non è stato certo edificante. Monti, d’altra parte, sta portando avanti la sua politica fondata sui tre pilastri, “rigore – equità – crescita”, rispettando fermamente l’ordine gerarchico in cui sono enunciati: l’intervento porterà nelle casse dello Stato circa 30 miliardi di euro, con i quali si spera di contribuire in modo decisivo all’obiettivo del pareggio di bilancio, confermato per il 2013.
Le misure previste, contenute in 49 articoli, si fondano sull’aumento dell’imposizione e sulla riduzione della spesa, in particolar modo quella pensionistica. Sotto il primo aspetto le novità principali riguardano l’aumento dell’IVA al 23%, l’introduzione dell’ IMU (Imposta Municipale Unica, in sostituzione della vecchia ICI) e l’aumento delle accise su alcuni prodotti, in primis sui carburanti. Tali provvedimenti sono destinati a colpire sostanzialmente tutti i contribuenti, con pochissime discriminazioni: solamente sull’IMU ci saranno detrazioni (fino a 600 euro) basate sul reddito e sul numero di figli. I beni di lusso, quali automobili costose, barche ed aerei, saranno tassati meno di quanto ci si aspettasse, come peraltro è stato deciso per i capitali “scudati”, ovvero rientrati grazie al condono. Mancano all’appello una tassa patrimoniale vera e propria, che molti avevano indicato come unica misura effettivamente “equa”.
Per quanto concerne la spesa, il provvedimento principale, almeno sul piano delle polemiche scaturite, riguarda le modifiche al sistema pensionistico, con l’aumento dell’età pensionabile (67 anni per gli uomini e 62 per le donne) ed il passaggio al sistema contributivo, conseguito all’abolizione del retributivo. In un certo senso questa potrebbe sembrare la misura più equa, in quanto dovrebbe evitare la cattiva abitudine delle promozioni “facili” in prossimità della pensione. L’obiettivo dichiarato, infatti, è quello di porre un rimedio al conflitto generazionale, per cui i giovani (fortunati) lavoratori pagano pensioni “gonfiate” ed ottenute magari a 55 anni, mentre loro sono costretti a lavorare fino a 70 ottenendo in fine la metà della retribuzione. L’accusa che viene mossa contro tale provvedimento, in particolar modo dai sindacati, è che non vi fosse alcuna necessità di aumentare l’età di pensionamento, in quanto i dati mostrano come le entrate da contributi siano perfettamente in linea con la spesa previdenziale. In altre parole, il Governo avrebbe utilizzato il pretesto distributivo per ottenere un surplus di entrate da questo capitolo, inserendo oltretutto la norma sulla deindicizzazione delle pensioni superiori ai 1400 euro, impendendone l’adeguamento all’inflazione. La polemica poi è alimentata dall’allentamento sul fronte dei tagli ai costi della politica. L’annunciato scioglimento dei consigli provinciali è stato posticipato al 2013, ma soprattutto mancano i famigerati tagli alle indennità ed ai vitalizi dei parlamentari, che anche stavolta si sono nascosti dietro a un dito, sostenendo che la decisione sui propri compensi spetta esclusivamente alle camere ed ai relativi presidenti.
Sul piano della concorrenza, in particolare le liberalizzazioni, si sono rivelate più blande del previsto: nessun intervento sui tassisti, normativa generica sui trasporti, riduzione del periodo massimo per i tirocini professionali da 3 anni a 18 mesi, mentre sulle farmacie si riducono di molto le tipologie di medicinali in vendita nei supermercati.
Le misure messe in campo, che suscitano forti dubbi sull’equità, seguono una logica precisa derivante dall’obiettivo principale, ovvero la stabilizzazione dei conti pubblici ed il rientro del deficit nel breve periodo. A tal fine, infatti, è necessario colpire il maggior numero possibile di contribuenti, quindi soprattutto il ceto medio ed i meno abbienti, poiché sono questi a garantire la certezza delle entrate: la tassazione sui redditi alti, nonostante la percezione comune, non può generare livelli adeguati di copertura, per una semplice questione di proporzioni. La ricerca dell’equità è però fondamentale sotto altri aspetti, in primis il conflitto sociale che, in periodi fortemente recessivi come quello attuale, necessita di misure di contenimento per non esplodere.
I dati riportati giovedì dal Centro Studi di Confindustria non sono certo confortanti sotto tale profilo. Si stima che in 5 anni di crisi si siano persi circa 1 milione di posti di lavoro: a farne le spese sono stati soprattutto i giovani, per i quali l’occupazione è peggiorata del 30%. I dati sul PIL, inoltre, confermano la pesante recessione per il 2010, con la crescita al -1,6%, dalla quale l’Italia uscirà solo nel 2013. In tale contesto la manovra del Governo non potrà che avere effetti ulteriormente recessivi, dato che con tutta probabilità caleranno sia consumi che investimenti: “Frena il PIL, ma senza saremmo in un percorso pre-fallimentare”, afferma Confindustria. In sostanza si assume che questo sia il male minore, in attesa del momento in cui la fiducia dei mercati sarà ristabilita e l’economia riprenderà a girare.
Sotto quest’ultimo aspetto è importante comprendere la giustificazione economica dell’operato del Governo, peraltro non da tutti condivisa, e dei sacrifici che vengono richiesti ai cittadini. Le manovre servono a creare risparmio pubblico (avanzo di bilancio), costituito dalla semplice differenza tra entrate ed uscite, al fine di ripagare il debito contratto, nel tentativo di ridurne l’entità e riportare contestualmente i tassi a livelli accettabili. D’altra parte, l’avanzo di bilancio non può crescere all’infinito poiché, dopo un certo livello, gli interventi sulla spesa e sulle imposte non sono più sostenibili politicamente. Al momento il compito è facilitato dalla presenza di un governo “tecnico”, per definizione estraneo alle logiche elettorali, ma in un’ottica di lungo periodo è prioritario agire attraverso misure di stimolo al reddito. Il recupero della fiducia dei mercati, infatti, passa attraverso la capacità di crescita di un’economia, a garanzia del futuro pagamento del debito. Per questo motivo molti lamentano la mancanza di provvedimenti efficaci, ad esempio sul mercato del lavoro, la cui frammentazione influisce negativamente in tal senso. Un ruolo potrebbe giocarlo anche l’Europa, che tradizionalmente non si è mai occupata di interventi comuni per la crescita. Il dibattito comunitario, in merito a tematiche decisive quali occupazione e liberalizzazioni, sta lentamente emergendo, lasciando qualche spiraglio a politiche di riduzione del debito fondate non solo sul controllo dei conti pubblici, ma anche sulla spinta alla ripresa economica.