Il nostro paese sta iniziando “un percorso di guerra durissimo”, ha dichiarato il premier Monti parlando al congresso dell’ABI, l’associazione bancaria italiana. I fronti su cui combattere sono essenzialmente due. Da un lato c’è la difesa della nostra posizione sullo scacchiere europeo ed internazionale, “una guerra contro i diffusi pregiudizi sull’Italia” per usare le parole del primo ministro.

Una diversa battaglia, forse ancora più complessa e pericolosa, si consuma invece sul versante interno, “una guerra contro le eredità, cioè il grande debito pubblico, contro gli effetti inerziali di decisioni del passato e contro vizi strutturali della nostra economia”. Le due sfide sono ovviamente legate a doppio filo, in quanto l’esito di una determina in modo decisivo gli sviluppi dell’altra: ormai qualsiasi riforma, dalla spending review al mercato del lavoro, passando per tassazione e pensioni, ha rilevanza diretta sullo scenario europeo e talvolta mondiale. Arrivati a questo punto della crisi, non è più possibile prescindere dal giudizio di soggetti terzi, che sia la Germania, la Commissione o il Fondo Monetario, perché sul terreno italiano si gioca una buona fetta del futuro dell’euro e dell’Europa.

Il governo Monti ha senz’altro riabilitato la reputazione dell’Italia: lo stesso premier ha ricordato come il punto più basso sia stato toccato l’anno scorso a Cannes, quando al G20 “Berlusconi è stato sottoposto a una pressione sgradevolissima, per lui e il Paese, prossima all’umiliazione che sostanzialmente, nell’intenzione dei prementi, avrebbe portato l’Italia a cedere buona parte della sua sovranità e discrezionalità”. Una tale condizione d’impotenza di un governo si riflette necessariamente in modo capillare all’interno delle strutture deputate a prendere le decisioni. Le istituzioni europee, infatti, sono piene di competenti tecnici italiani, che spesso occupano posizioni di comando: avere un governo credibile alle spalle consente dunque di esercitare le proprie funzioni in modo autorevole e con una certa fermezza. Per questo motivo l’eventuale nuova “discesa in campo” di Berlusconi preoccupa non solo i capi di governo di mezzo mondo, convinti che tale prospettiva annullerebbe di fatto le politiche intraprese da Monti, ma anche tutti quegli italiani che sono stanchi di difendere con i denti gli interessi di un paese malgovernato.

Per conseguire l’obiettivo della riabilitazione, Monti ha dovuto assecondare le richieste di Bruxelles in tema di riforme strutturali interne, peraltro in linea con la sua idea di politica economica. La voce in capitolo ottenuta durante gli ultimi vertici, dove la linea italiana ha spesso prevalso anche su quella tedesca, come nel caso del fondo anti-spread, è stata ottenuta attraverso dolorose politiche restrittive. Alla base di tali scelte vi è un’impostazione di tipo liberista, per cui i mercati devono generalmente autoregolarsi e lo Stato deve intervenire il meno possibile. Questo sembra essere particolarmente vero per il mercato del lavoro, dove “esercizi profondi di concertazione in passato hanno generato i mali contro cui noi combattiamo, a causa dei quali i nostri figli e nipoti non trovano facilmente lavoro”. Si tratta appunto dell’eredità a cui Monti ha dichiarato guerra, individuando nei sindacati il nemico da affrontare.

Le parole del premier hanno ovviamente suscitato le immediate reazioni delle rappresentanze sindacali, in particolare del segretario CGIL Camusso: “Monti non sa di cosa sta parlando”. Dal punto di vista del governo il meccanismo della concertazione, per cui le scelte salariali ed industriali sono frutto di un accordo tra le parti sociali, ha determinato una serie di inefficienze per cui gli stipendi sono rimasti “scollegati” dalla produttività, le pensioni sono state precoci e le barriere all’ingresso nel mercato del lavoro sono cresciute. La cura di questo male sta portando dunque verso un’uscita liberista dalla crisi in atto: la riduzione delle protezioni sindacali dovrebbe consentire un adeguamento competitivo della struttura produttiva italiana, attraverso l’impiego massiccio della flessibilità. Il nuovo modello, integrato dalla contestuale riduzione dello “stato sociale” in termini di servizi pubblici, tende a replicare esperienze non europee, ritenute efficaci per competere sul mercato globale.

Questa visione dell’economia non è tuttavia esente da punti critici, specie in un’ottica di lungo periodo. In primis, non è razionale scaricare le colpe del “declino italiano” solamente sulle forze sindacali che frenano lo sviluppo: la miopia delle governance industriale degli ultimi decenni ha giocato un ruolo decisivo, preferendo rincorrere modelli produttivi antiquati, puntando sulla riduzione dei costi e sulla delocalizzazione piuttosto che sull’aumento del contenuto tecnologico. Per quanto si possano tagliare i salari, comprare materie prime di qualità sempre più scarsa o investire in manodopera a basso prezzo nei paesi dell’est Europa, non sarà certo possibile competere con i costi di produzione di Cina o India, a meno di non voler perdere lo standard di vita conquistato dal dopoguerra ad oggi. I governi che si sono succeduti, inoltre, non hanno certo aiutato le aziende, mancando per anni l’appuntamento con una riforma fiscale seria in grado di abbattere i costi in ricerca e manodopera altamente qualificata. Il risultato finale è un impoverimento generale, aggravato da un conflitto intergenerazionale, per cui ognuno persegue i propri interessi specifici in assenza di una visione complessiva: non ci si può certo stupire se il sindacato punta i piedi a difesa di ciò che rimane.

Il problema tuttavia non è solo italiano: la Spagna sta attraversando un percorso del tutto simile al nostro, con tratti forse ancora più drammatici. Il governo di Rajoy ha dovuto contrattare il salvataggio del sistema bancario da parte di Bruxelles, che in cambio dei 30 miliardi concessi ha chiesto un pesante intervento di risanamento di bilancio. Per il momento gli statali hanno dovuto accettare il taglio netto della tredicesima, mentre si profilano la riduzione dei posti di lavoro e l’aumento della tassazione, in particolare dell’aliquota IVA. Le proteste in piazza, al pari delle azioni sindacali, sono all’ordine del giorno, contrastate duramente attraverso interventi delle forze dell’ordine. Il punto è che per gli spagnoli il risveglio è stato molto più brusco, poiché solo pochi anni fa Madrid era l’emblema di un miracolo economico conseguito grazie all’integrazione europea. Anche in Spagna, come già in Grecia ed Italia, si punterà alla riduzione delle tutele sociali per alleggerire i conti pubblici e per innescare uno stimolo alla crescita che sembra alquanto improbabile.

L’unica speranza è che le misure intraprese nel vecchio continente riportino un po’ di tranquillità almeno sul fronte finanziario, ma per il momento la ricetta non sembra funzionare. Moody’s ha appena declassato i titoli di Stato italiani, confermando peraltro le previsioni negative nel medio periodo. Il meccanismo fondato su fiducia e credibilità sembra essersi sostanzialmente inceppato: le agenzie di rating hanno dimostrato più di una volta la propria inaffidabilità, ma l’intero sistema poggia sulle loro valutazioni che incidono pesantemente sulle scelte di finanza pubblica nazionale. I mercati sembrano non credere nel governo Monti ed in nessun altro governo dell’Europa meridionale, mentre Bruxelles si fida solo del professore e spinge per una candidatura alle politiche nel 2013, prevedendo scenari apocalittici per le possibili alternative. L’impressione è che la guerra-lampo di Monti si sia trasformata in un conflitto di trincea, per cui sopravvivere, piuttosto che vincere, è la parola d’ordine.

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