Gli scenari si fanno sempre più apocalittici e la questione è arrivata anche sul tavolo del G8. Va studiata una exit strategy perchè l’uscita della Grecia dall’euro gruppo porterebbe ad un effetto domino ed un passo indietro dell’Europa di trent’anni. Intanto a Francoforte si sono riaffacciati gli indignados.
Come da molti pronosticato (vedi anche articolo di Golem del 9 marzo, correlato a questo), il piano di finanziamenti concessi alla Grecia nei mesi scorsi ha semplicemente allungato l’agonia di un paese ormai allo sbando, senza governo e con i nervi a fior di pelle. Gli scenari si fanno sempre più apocalittici, specie dopo lo sdoganamento del più grande dei tabù, ovvero la potenziale uscita dalla moneta unica ed il ritorno alla Dracma. La questione è ormai arrivata anche sul tavolo più importante di tutti, quello del G8 che inizia oggi (venerdì) a Camp David. Anche senza entrare nei tecnicismi economici, sono due le semplici conclusioni che si possono trarre dagli ultimi sviluppi: da un lato l’Europa non sembra in grado di gestire autonomamente la situazione, per cui occorre andare a Washington per discuterne con Obama, mentre dall’altro si certifica in modo inequivocabile l’impossibilità di un ritorno generale alle monete nazionali. In merito al secondo aspetto, infatti, è necessario sottolineare il peso “marginale” nello scacchiere europeo della Grecia, il cui debito pubblico non arriva al 2% del totale. Se la “exit strategy” dall’Euro di un’economia relativamente piccola sta devastando l’intero continente da due anni, lasciando oltretutto segni indelebili nel lungo periodo, è difficile immaginare cosa possa accadere con l’uscita della Spagna o dell’Italia.
La settimana scorsa, quando ormai era chiaro che il parlamento greco non sarebbe stato in grado di formare un nuovo governo, il potente ministro delle finanze tedesco Schaeuble ha dichiarato che “l’Euro non affonda così facilmente”, anche se Atene decidesse di uscire dalla area monetaria. Le parole dei vari massimi esponenti della governance europea vanno pesate attentamente: il fatto è che nessuno può arrogarsi il diritto di forzare la Grecia ad andarsene, semplicemente perché il trattato istitutivo dell’unione monetaria non prevede in nessun caso la “cacciata” di uno stato sovrano. D’altra parte l’Europa, guidata dalla Germania e dalla politica “punitiva” verso i paesi in difficoltà nella gestione delle finanze pubbliche, ha preteso condizioni per l’erogazione degli aiuti che nessun elettore in nessun paese democratico avrebbe appoggiato. Sembra del tutto normale, dunque, che la maggioranza dei greci, rappresentati dai rispettivi partiti in parlamento, voglia rinegoziare gli accordi presi, che rischiano di stritolare un’economia già fortemente indebolita. Per questo motivo le dichiarazioni di Schaeuble, secondo cui Berlino “non vede ragione per rimettere in discussione i programmi”, suonano come un modo cortese per accompagnare Atene alla porta: senza quei soldi la Grecia andrà in bancarotta ed a quel punto dovrà obbligatoriamente abbandonare l’Euro.
Spesso le parole di politici ed “eurocrati” hanno funzione di indirizzo e servono per ottenere risultati diversi da quelli espressi ad alta voce. In questo caso, tuttavia, è bene interrogarsi su cosa succederebbe in Grecia se realmente decidesse di cambiar moneta: l’impressione è che nessuno abbia le idee chiare, anche perché sarebbe un evento probabilmente unico destinato a finire nei libri di storia economica. La prima questione da affrontare riguarda le tempistica, dato che in un mercato dei capitali perfettamente integrato come quello europeo, in cui è possibile spostare ingenti somme di denaro da un paese all’altro con un semplice clic sul computer, il rischio di una fuga all’estero è incalcolabile. L’operazione, di per sé estremamente costosa in termini di produzione della “nuova dracma”, dovrebbe svolgersi durante il fine settimana quando i mercati mondiali sono chiusi, meglio se in modo improvviso ed inaspettato. Ammesso che il cambio avvenga uno ad uno (ovvero una dracma per un euro), durante le prime ore di contrattazione la nuova moneta perderebbe almeno il 50% del proprio valore, per della vendita massiccia di asset greci. I titolari di conti correnti, prevedendo tali conseguenze, anticiperanno la svalutazione correndo agli sportelli: in pratica, lasciare i soldi in banca vuol dire trovarsi dopo un giorno con un potere d’acquisto dimezzato, mentre cambiare successivamente euro in dracme consente di mantenerlo intatto. Per questo motivo sarebbe necessario un blocco totale dei prelievi nei giorni che precedono l’operazione, da attuarsi attraverso lo spegnimento dei bancomat e l’impiego dell’esercito. Superata la primissima fase, si attiverebbe un processo inflazionistico con forti rischi di avvitamento, viste le conseguenti richieste salariali e la continua produzione di banconote necessaria per far fronte alle spese in valuta straniera, sia per le contrattazioni finanziarie sia per l’aumento dei prezzi dei beni d’importazione. Unico beneficio per la Grecia sarebbe l’abbassamento dei prezzi relativi, per cui aumenteranno le esportazioni (i beni greci costeranno molto meno) e sarà incentivato il turismo.
Sul fronte dell’impianto europeo, le conseguenze sono altrettanto incerte. Il sistema bancario, che grazie all’intervento della BCE ha ottenuto forti garanzie sui titoli greci in proprio possesso, dovrebbe riuscire a resistere alle perdite senza eccessivi scossoni. Meno prevedibili sono invece gli effetti “indiretti” sui paesi caratterizzati da un elevata rischiosità dei titoli del debito, in quanto la paura del contagio potrebbe autoalimentarsi colpendo le economie deboli che già mostrano segnali preoccupanti. Il solo annuncio di nuove elezioni a giugno, infatti, ha portato gli spread di Spagna ed Italia ben sopra la soglia di allarme: in altre parole, una volta eliminato il paese più a rischio, i mercati potrebbero puntare l’attenzione verso altre economie, guidati dai profitti derivanti dalle speculazioni selvagge. Un altro aspetto riguarda la sopravvivenza stessa dell’Europa: il processo di unificazione monetaria è stato funzionale all’adozione del Mercato Unico, per cui merci e capitali circolano liberamente. Il ritorno alle valute nazionali ed ai cambi flessibili, implicando continui rischi di svalutazione “competitiva”, potrebbe portare ad un ritorno delle dogane al fine di impedire pratiche di concorrenza sleale.
Gli scenari di rottura, alimentati dalle emergenti tendenze nazionalistiche, porterebbero dunque l’Europa indietro di quasi trent’anni. I segnali provenienti dalle alte sfere non sono certo incoraggianti: il vertice in videoconferenza di giovedì tra Monti, Merkel, Hollande e Cameron non è servito a trovare una soluzione comune, per cui oggi l’Europa si presenta al G8 ancora una volta divisa. D’altra parte non si può sottovalutare il clima antieuropeo che si sta diffondendo nel continente, determinato dall’egemonia degli interessi finanziari sugli interessi pubblici. Giovedì a Francoforte, cuore dell’economia europea, gli “indignados” hanno iniziato un’occupazione pacifica di tre giorni di fronte alla sede della BCE. Solamente il primo giorno i fermi emessi dalla polizia tedesca sono stati centinaia (tra cui circa 70 italiani): il motivo è stato il rifiuto di firmare un foglio in cui ci si impegnava a non manifestare, pena l’arresto nei giorni successivi. Difendere a tutti i costi, anche con la forza, un sistema che è causa stessa della crisi attuale non sembra onestamente una buona strategia. Le istituzioni pubbliche, oggi arroccate intorno ai grandi interessi finanziari, dovrebbero interrogarsi sul rispetto dei principi democratici, senza i quali la convivenza europea non può che collassare: la vittoria di Hollande e la sconfitta della Merkel in Westfalia sono segnali che non possono essere ignorati.