Non dobbiamo dimenticare, tanto per intenderci su dove ci troviamo, che l’Italia, come è stato affermato e confermato in modo inoppugnabile anche in una recente trasmissione televisiva, è un Paese dove, a fronte di un enorme debito pubblico, intorno ai 2mila miliardi di euro, ci sono poche famiglie che possiedono un fantasmagorico patrimonio complessivo di 9mila miliardi di euro quindi (oddio… in un mondo di fantascienza!), se volessero, potrebbero da sole azzerare il debito pubblico con gli evidenti enormi benefici per tutti, comprendendo anche loro, senza accorgersene neanche.
Un Paese dove si guadagna e ci si arricchisce facendo politica ed invece ci si impoverisce lavorando; dove, insieme ad una pressione fiscale di livelli scandinavi (ma qui ingiustificata, se non si ha riguardo alla copertura egli sprechi) c’è l’indice di evasione fiscale più alto d’Europa; dove non sono i migliori a progredire (che invece fuggono all’estero) ma i più furbi e pronti a violare la legge; dove c’è un tasso di criminalità organizzata tra i più alti nel Mondo.
Ora in un Paese caratterizzato da queste inquietanti ed altre anomalie, quale è il valore di coloro che hanno i soldi?
Non è questione del “valore” dei soldi, dell’economicità, dell’utilità, del potere, non della quantità (su questo avrebbe potuto dirci qualcosa l’ideatore di Scrooge McDuck, Paperon de’ Paperoni, come ci ricorda Wikipedia, ispirato ad un personaggio di Charles Dickens… a proposito di nobiltà d’animo), né della provenienza, della legittimità, neanche del “colore” dei soldi, o qualsiasi altro riferimento tradizionale o scenografico abbia a che vedere con i soldi, ma specificamente della cultura dei soldi; CULTURA, proprio come quella che può suscitare nella nostra mente il pensiero di un Michelangelo, Shakespeare, Dante, Raffaello, Caravaggio, Beethoven e così via.
La donna che pesa l’oro di Van Hemessen, certo, è cultura dei soldi; non lo è quella del dittatore di un Paese del Centro Africa che da’ l’esclusiva sul latte delle mandrie bovine, in precedenza destinato ai bambini, ad una Multinazionale come la Nestlè, prendendo soldi per rafforzare la propria struttura militare, e lascia così nella più assoluta carestia il proprio popolo che dovrà accontentarsi degli “aiuti umanitari”. E’ cultura dei soldi il “Money, Money” di Liza Minnelli; non lo era il business del Cartello di Medellin, come non lo è quello di tutti i signori della droga; tanto per fare qualche esempio.
Parlare di cultura, a proposito dei soldi, è un riferimento molto importante, soprattutto per l’Italia, che si è ritrovata, forse senza neanche accorgersene, improvvisamente trasformata, da Paese agricolo a Paese industriale. Indubbiamente un vantaggio questo, per quanto il danno collaterale, non indifferente, è nelle volgarità e brutture che si vedono in giro, nei paesaggi, negli insediamenti edili, nell’utilizzo delle discariche, ma soprattutto nella testa di molta gente; situazione sperabilmente transitoria.
Per come si era messa (meglio sarebbe stato se nulla fosse accaduto, ma visto che ormai era accaduto) l’unico vero, grande, fiore all’occhiello del Fascismo è stato quello di perdere la guerra; dopo di che è stato possibile inserirsi subito, quantomeno nell’ineludibile filone della modernità, a differenza della Spagna che ha dovuto sorbirsi altri 30 anni di Franchismo, uscendone stremata e arretrata in tutti campi anche se, con temperamento e coraggio, ha fatto successivamente passi da gigante; pur dovendo oggi (forse a causa della somma algebrica delle due forze contrapposte) registrare una crisi peggiore (di poco, grazie anche alle bubbole di casa nostra, che non sono poca cosa) di quella italiana.
Dunque: la cultura dei soldi, dicevo. Ma meglio sarebbe dire “cultura della ricchezza”. E’ uno stretto viottolo che affaccia su uno strapiombo, ma bisogna percorrerlo, non ci sono solo piazze, viali, strade, autostrade e superstrade. Su quali basi se ne può parlare?
Non voglio farmi maestro, non ne avrei alcun titolo, mi esprimo attraverso concetti intuitivi, anzi occorrerebbe un approfondimento attraverso altri interventi più qualificati, un dibattito, riflessioni più accurate, ma sento di poter dire a grandi linee, senza peccare di presunzione, che il rapporto personale con la ricchezza si sviluppa sostanzialmente attraverso due modalità di fondo: “ho molti soldi, è una responsabilità, c’è anche una componente sociale in essi, devo tenerne conto”; oppure: “ho una quantità di soldi e ne faccio quello che mi pare, non devo dare conto a nessuno”.
Nel primo caso si può parlare di cultura della ricchezza; nel secondo caso di incultura.
Facciamo qualche esempio?
“Taxez-nous!” scrissero 16 milionari francesi sul Nouvel Observateur nell’agosto 2011, rivolgendosi a Sarkozy, consci di aver beneficiato di un sistema, quello francese, da preservare;
Warren Biffett e Bill Gates si sono offerti, nel settembre 2012 dalle reti della CNN, di distribuire una consistente parte della loro immensa fortuna, fino al 50%, alla comunità, riuscendo a coinvolgere altri 11 magnati americani.
Come possiamo definire questa, se non cultura? Lungimiranza?
Un tale che, senza che nessuno glielo abbia chiesto, si propone come nostro Padre della Patria, parafrasando certi villici e montanari dal cicchetto facile, che proclamano “prima di tutto il Nord”, brandendo qualcosa (ma non è chiaro che cosa; clave come i Flintstones di Hanna-Barbera? Tibie come i gorilla di Kubrick?), nel manifestare il suo amore indiscusso (dove è maestro, come si è detto) verso la sua Italia, proclama si vabbè… ‘st’Italia! Ma a parte il fatto che, ormai, non è più di primo pelo, vengono prima di tutto la Mediaset, la Mondadori, la Fininvest, Endemol, la Mediolanum, il Forum di Assago, e mettiamoci pure il teatro Manzoni… per farla breve: i cazzi mia (sic!) e poi il pilu e tutto il resto”.
Come la chiamiamo questa? Si può dire: ricchezza cafona, o cafonaggine ricca.
Ma non è solo lui. Anche qualcun altro che non si direbbe o non lo dà a vedere, che sembrerebbe più “correct”, che forse Mme (speriamo che non si offenda; secondo sua eccellenza De Martino, dovrei dire “Sua Grazia”? Magari però è un po’ esagerato) Fornero, definirebbe choosy, leggiucchia nello stesso libro (dobbiamo riferirlo alla costante validità del detto “cane non morde cane”?), ad esempio Marcegaglia: “Taxez-nous! Un par de ciufoli (sic!). Qui da noi sarebbe come gravare di tasse chi già ne paga tante!”, o un Della Valle, che predica bene, ma le sue Tod’s le fa confezionare in Cina. Dite la verità, che differenza di stile con i francesi e gli americani sopra menzionati! Ma non lesiniamo… anche con i tedeschi, gli inglesi, gli olandesi è la stessa storia, o meglio la loro è tutta un’altra storia. Ci arriveremo mai? Ah… non attraverso i Governi Tecnici. E’ pur vero che il nostro ex Premier, (neo) uomo della Provvidenza, che peraltro a quello si ispirava, a parte il fez (una pagliacciata pure quella, o meglio, con terminologia aggiornata, una “vajassata”), ci stava portando da tutt’altra parte, la parte opposta, direi, ma… in una Democrazia moderna, efficiente e prospera, il Governo è eletto dai rappresentanti del popolo, cribbio!
E’ incultura fare una carità spicciola a tappeto per lavarsi la coscienza, senza farsi carico del problema sociale della povertà. Così come è incultura fare di tanto in tanto più consistenti gesti caritatevoli per sentirsi “più buono”, senza chiedersi quale sia la volontà del soggetto passivo di tale generosità, né rendersi conto di quale effetto sortisca su di lui.
Ingozzarsi maialescamente, o riempirsi di alcool come un otre, ma anche drogarsi, non per “le cazzate che tutti facciamo da giovani”, o per problemi psicologici e al di fuori di questi, che meritano attenzione e il trattamento necessario, ma perché si ha la tasca gonfia è roba, oltre che da disgraziati, da incolti; avere rispetto, invece, per la propria persona, anche in considerazione degli altri, anche bambini, che guardano, studiano, si ispirano, ha a che fare, oltre che con la salute, la civiltà e la convivenza sociale, con la vera e propria cultura.
Comprare “chell’ ca costa ‘e cchjù” senza alcun riguardo verso chi ha cercato di valorizzare il gradevole, il ricercato, rispetto al pomposo, è incultura. Quante volte abbiamo avuto modo di constatare che appare più elegante chi sceglie e abbina colori, stoffe, scarpe, vestitini da mercatino, rispetto a chi colleziona “firme” dalla testa ai piedi, con l’occhio opaco, rivolto solo alle etichette?
E così è incultura dire, protetti dal cono d’ombra di ambigui traffici, “m’ingroppo tutte le sere la Falchi”, o qualsiasi altra “ingroppanda” (o “ingroppando”), oppure “Lanzinechecchi”, anziché “Lanzichenecchi”, a proposito di vaghi mercenari in non precisate epoche, come fanno alcuni personaggi chiamati “i furbetti del quartierino”, ovvero, al contrario “capitani coraggiosi” da un parvenu, appunto, noto soprattutto per i suoi baffetti.
I saccheggi del territorio e delle risorse naturali… i brogli imprenditoriali e fiscali, il denaro ora, subito! Rispetto agli investimenti sul futuro e sulle capacità dei giovani; cancrena, difetti che hanno fatto sì, tanto per dirne una, che una importante e articolata macchina di danaro, turismo, prestigio internazionale, come Disneyland, soprattutto per le difficili condizioni del Sud dell’Italia, trasmigrò, senza alcuna titubanza, dalla soleggiata e ridente Campania, ma infestata di clientelismo, avidità, burocrazia e camorra, dove già pareva tutto fatto, ai cieli grigi di Parigi; i bidoni e taglieggiamenti ai turisti sono, senza ombra di dubbio, bisogna riconoscerlo con l’amaro in bocca, incultura, ignoranza della “vera” ricchezza.
Andando verso la conclusione, e tirando, quindi, un po’ le fila del discorso, tanto per fare un altro esempio, immaginiamo che la padronanza dei soldi (o meglio, alla luce di tutto quanto s’è detto, è chiaro, ormai che più appropriata è l’espressione “padronanza della ricchezza”) sia una vera e propria disciplina, come qualsiasi altra disciplina, uno sport, prendiamo qualcuno tra i più duri, la boxe o il football americano, ma ce ne sono tanti (è ben chiaro che lì c’è disciplina ancora più che in contesti più blandi, per ovvi motivi); bene, ci sono delle regole tecniche, ma non solo, ci sono regole comportamentali, di educazione, di tradizione, di correttezza, di saper vivere in società e così via. I parametri sono di relazione, non assolutistici, per cui assestare un buon uppercut, colpire al punto giusto per mandare l’avversario al tappeto, placcare l’avversario per impedirgli di andare in meta, è CULTURA di quel determinato sport; dare colpi bassi, fare gli sgambetti o peggio corrompere l’arbitro o truccare l’incontro o la partita è INCULTURA.
Non è diverso il discorso per quanto riguarda il rapporto con il danaro o la ricchezza, concetti anche questi di relazione e non certo assolutistici, rispetto agli altri, al cd. prossimo. Truffare, evadere le tasse, corrompere ecc. è INCULTURA; ma schiacciare la concorrenza, espandere, con mezzi leciti, il più possibile la propria impresa, realizzando maggiori profitti ma creando anche altri posti di lavoro; stando sulle alte vette, potendo spaziare con lo sguardo, avere una visione di insieme, guardare al futuro, alla salvaguardia della vita civile, della natura e dei valori, questa è CULTURA della ricchezza.
E’ molto più facile, ahimé, nel nostro Paese, trovare esempi di incultura, che non di cultura del denaro, forse col tempo…
A parte le ruberie dei vari Lusi, Fiorito, Belsito… ricordate quel famoso gruppo musicale, gli “Squallor”? “Beh… squallor o non squallor, il grano in cascina l’hanno portato!” dirà qualcuno tra i miei lettori (‘mbè “stamm’ semp’ llà” come direbbe un mio saggio e dotto amico); e la volgarità delle “creste” sulle spese dei vari Fede, Mora, Spinelli (non mi dire che non l’hai mai fatto), prendiamo un Di Pietro e le sue case, non case, la cascina ereditata, l’esigenza di dar conto di cooperative, lasciti, tabulati catastali, l’ira funesta contro il povero Crozza… andiamo! Persino Marcello (lui il Marcello “parte palermitano e parte nazionale”) è più cool.
E così concludo; alla luce dei fatti e della attuale situazione nostrana, mi pare giusto chiudere il libello, proprio con lui, perché meglio ne incarna lo spirito, con Marcello, detto anche il signor “Finché-sono-imputato-mi-candido”. (seconda parte – fine)