La sanzione ha trovato giustificazione nella riproposizione da parte dell’attore, sotto una ‘diversa ma inconsistente veste giuridica’, delle stesse doglianze già esaminate e ritenute infondate in un precedente giudizio.
La decisione in argomento nasce dall’esigenza, sempre più attuale ed incalzante, di evitare l’abuso del processo, ovvero la pratica di promuovere o di resistere in giudizio ingiustificatamente, a solo fine dilatorio.
I Tribunali sono interessati da un incremento incontrollato di procedimenti palesemente infondati, promossi al solo fine di posticipare l’adempimento di obbligazioni di natura quasi sempre pecuniaria.
L’abuso del processo, tuttavia, non è solo censurabile da un punto di vista morale, ma, come ha avuto modo di sottolineare il Tribunale di Varese in una propria significativa sentenza del 2010, “causa un danno indiretto all’erario per l’allungamento del tempo generale nella trattazione dei processi” così intaccando la funzionalità dell’intero sistema Giustizia.
Avendo a mente tale situazione, il Legislatore ha quindi introdotto, con la L. 69/2009, il comma 3 dell’articolo 96 c.p.c., il quale prevede un vera e propria condanna punitiva al fine di scoraggiare l’abuso del processo e di disincentivare il contenzioso ingiustificato.
L’art. 96 comma 3 c.p.c. prevede: «In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata».
Si tratta di una condanna con vera e propria natura sanzionatoria, il cui operare è subordinato alla presenza, nella parte soccombente, dell’elemento soggettivo della malafede o colpa grave.
Gli elementi innovativi del comma 3 dell’art. 96 c.p.c., rispetto al già esistente comma 1 dello stesso articolo (il quale prevede il potere del giudice, su istanza di parte, di condannare il soccombente, che abbia agito in giudizio con mala fede o colpa grave, al risarcimento dei danni -oltre che al rimborso delle spese- sofferti dalla parte vittoriosa) sono di non poco rilievo: la condanna può essere pronunciata anche d’ufficio, ossia in assenza di una specifica istanza della parte risultata poi vittoriosa, ed ha carattere spiccatamente sanzionatorio (laddove il già esistente primo comma aveva un ruolo esclusivamente risarcitorio).
Nell’ottica della propria finalità sanzionatoria, il nuovo disposto normativo prevede che la quantificazione della condanna, lungi dall’essere commisurata all’entità del danno subito dalla parte vittoriosa sotto i profili dell’an e del quantum, sia rimessa all’equo apprezzamento del giudice.
Ed ancora, che il potere di comminare la sanzione sia riconosciuto al giudice «in ogni caso», ossia a prescindere dal fatto che il comportamento della parte soccombente abbia provocato all’altra parte un danno effettivo e dimostrabile. La ratio alla base della nuova norma non è, d’altro canto, quella di ristorare un danno subito dalla parte vittoriosa, ma quella di irrogare una sanzione afflittiva capace di fungere da deterrente rispetto al futuro verificarsi di condotte della medesima specie.
Per quanto attiene l’entità della sanzione monetaria, la norma non prescrive limiti edittali rendendo fondamentale il ruolo della Giurisprudenza nel delineare parametri cui rapportare le proprie decisioni.
Un parametro elaborato dalla Giurisprudenza, utile ad orientare la discrezionalità del giudice potrà, allora, essere quello delle spese di lite. Il Tribunale di Verona, ad esempio, con un proprio protocollo, ha individuato una forbice tra il minimo di un quarto ed il massimo del doppio delle spese legali quale criterio cui avere riguardo nella determinazione della condanna ex art. 96, comma 3 c.p.c..
All’interno di questa forbice, poi, il Giudice, rispettoso della natura sanzionatoria della norma, si orienterà valutando la gravità dell’abuso processuale.
Diversamente, nel sopra riportato caso Rizzoli, il Tribunale ha ritenuto equo commisurare la condanna all’entità dell’ingiusto profitto che l’attore intendeva ricavare dal giudizio. Così, nel caso di specie, la sanzione corrisponde all’1% della domanda proposta dall’attore (pari a complessivi 650 mln di Euro) nei confronti di tutti i convenuti in solido tra loro.
Gli altri criteri possibili (in rapporto alla natura della prestazione o all’entità del danno) sono ritenuti dalla Dottrina maggioritaria, inidonei rispetto alla volontà punitiva di uno specifico comportamento processuale ritenuto censurabile.
Considerando che agire in giudizio per far valere una pretesa che si rivela infondata non è condotta di per sé rimproverabile (Cass. Civ. 21570/2012), la nuova condanna per lite temeraria persegue un ambizioso fine pubblicistico, quello della funzionalità dell’apparato giurisdizionale.