Può la Camera stabilire quale sia il giudice naturale? Il voto dell’Aula di Montecitorio di martedì 5 aprile si è concentrato sulla vicenda Rubygate e poco sulla questione “tecnica” riguardante le prerogative del Parlamento.
A proposito: la traduzione letterale di Rubygate sarebbe “porta di Ruby”, ma dall’epoca dello scandalo del Watergate il suffisso “gate” assume spesso il valore di sinonimo di scandalo. In realtà Watergate è il nome di un complesso alberghiero che si chiama così appunto perché si affaccia sul fiume Potomac, e dunque è una specie di cancello sull’acqua.
Torniamo al voto della Camera. Non si tratta quindi di stabilire se la ragazza sia realmente la nipote di Mubarak o parente alla lontana, si tratta piuttosto di capire se la Camera poteva o meno sollevare la questione.
Questo il testo della richiesta: Accerti la Camera la «sussistenza delle condizioni per sollevare un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato davanti alla Corte costituzionale, a tutela delle prerogative della Camera lese dall’operato omissivo della magistratura procedente (procura della Repubblica e giudice per le indagini preliminari di Milano nei confronti dell’onorevole Silvio Berlusconi».
La richiesta, come è noto, è approvata con 12 voti di scarto e adesso sarà la Corte Costituzionale a decidere se il Presidente del Consiglio dovrà essere giudicato dal Tribunale di Milano o da quello dei Ministri.
La vicenda sappiamo che nasce dalla dichiarazione del premier fatta, secondo i difensori, nell’esercizio delle sue funzioni di presidente del Consiglio.
La giunta per le autorizzazioni il 9 marzo scorso a maggioranza aveva espresso il convincimento che «la Camera, a tutela delle sue prerogative costituzionali» doveva elevare conflitto di attribuzione nei confronti dell’Autorità giudiziaria di Milano, «essendo stata da quest’ultima lesa nella sfera delle sue attribuzioni riconosciute dall’articolo 96 della Costituzione».
L’articolo in questione stabilisce che: «Il presidente del Consiglio dei ministri ed i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale».
Questo significa che, il Presidente del Consiglio e i Ministri, possono essere sottoposti alla giurisdizione ordinaria per reati commessi nell’esercizio delle funzioni soltanto dopo l’autorizzazione della Camera.
L’Aula, dal canto suo, può rifiutarla se ritiene che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato o per perseguire un interesse pubblico nell’esercizio della sua funzione. La Costituzione, però, non riporta una definizione dei reati ministeriali.
La legge costituzionale 1/1989 prevede che l’intera competenza per la fase delle indagini preliminari sia affidata al Tribunale dei ministri, che, investito dal procuratore in caso di notizia di reato ministeriale, ha 90 giorni di tempo per compiere le indagini preliminari, al termine delle quali, sentito il pubblico ministero, può rimettere gli atti al presidente della Camera competente per ottenere l’autorizzazione a procedere. La stessa legge prevede (articolo 9) che il Parlamento possa, a maggioranza assoluta, negare l’autorizzazione, con deliberazione motivata, soltanto «ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo».
Da parte della maggioranza è stato affermato che, analogamente al caso Mastella, con il voto di martedì si trattava semplicemente di accertare se la Camera aveva il diritto di essere informata dall’autorità giudiziaria di un caso che riguardava il Presidente del Consiglio.
In realtà, tecnicamente, quest’affermazione è falsa: proprio la Corte di cassazione con la sentenza Mastella del 3 marzo 2011 ha dichiarato che «l’affermazione della Corte costituzionale secondo cui all’organo parlamentare non può essere sottratta una propria autonoma valutazione della natura ministeriale o meno dei reati oggetto di indagine giudiziaria, non può essere intesa nel senso di negare all’autorità giudiziaria procedente la potestà esclusiva di qualificare la natura del reato».
È quindi attribuzione esclusiva della magistratura accertare la ministerialità del reato.
In parole povere, la Cassazione riconosce ai giudici il diritto di stabilire se il reato ipotizzato riguarda o no la funzione di ministro.
Sempre secondo gli esponenti della maggioranza, il giudice sarebbe tenuto a trasmettere al Tribunale dei ministri gli atti che riguardano i reati ministeriali senza compiere alcuna indagine; inoltre alla Camera di appartenenza spetterebbe il diritto di una propria autonoma valutazione sulla natura ministeriale dei reati oggetto di indagine giudiziaria quando il Tribunale dei ministri l’abbia negata. Nel caso in cui la Camera non condivida le conclusioni del Tribunale dei ministri, può sollevare un conflitto di attribuzione assumendo di essere stata menomata della prerogativa riconosciutale dall’articolo 96 della Costituzione. Sempre secondo la maggioranza di centrodestra questa affermazione assumerebbe valore di principio e troverebbe applicazione anche quando il giudice trasmetta le carte al Tribunale dei ministri. Con una interpretazione molto “estensiva” quindi, in tutti i casi di divergenza tra Camera e autorità giudiziaria in materia di natura ministeriale del reato, secondo il Centrodestra, si può elevare conflitto di attribuzione.
Ma se si parla della natura del reato, il giudice della “ministerialità” del reato è il giudice procedente e il Parlamento, per poter sollevare conflitto, deve esserne informato solo quando c’è dissenso tra le opinioni del Pm e del giudice. Esempio: se il pubblico ministero ritiene che il reato sia stato commesso nell’esercizio delle funzioni ministeriali e per questo invia gli atti al tribunale dei ministri, e il tribunale, invece, dice che la funzione di ministro non c’entra con il reato, è a questo punto che il Parlamento può intervenire nella discussione per dire la sua ed eventualmente chiedere alla Corte costituzionale di risolvere la questione.
Un caso del genere accadde con il ministro Matteoli e la Corte costituzionale censurò la magistratura livornese che non aveva coinvolto nel contraddittorio il Parlamento. Ma quella pronuncia della Consulta non può essere presa d’esempio anche in questo caso perché Pm e giudice sono concordi sulla “non ministerialità del fatto” (in pratica il fatto che il reato contestato a Berlusconi non sia connesso con la sua attività ministeriale, cioè non sia stato commesso “grazie” alle sue prerogative di Primo Ministro, vede concordi sia pubblico ministero che giudice).
Inoltre, la Corte costituzionale con la sentenza 241/2009, ha sancito l’obbligo per il Tribunale dei ministri, di dare notizia alla Camera competente, del provvedimento di archiviazione anomala o asistematica (con il quale si esclude la natura ministeriale del reato), per poter consentire al Parlamento di acquisire gli elementi necessari ad elevare, nel caso, conflitto.
Ma la Corte non affermò il potere della Camera di pronunciarsi di propria iniziativa in ordine alla ministerialità del reato, né stabilì per l’autorità giudiziaria, l’obbligo di chiedere preventivamente alla Camera di appartenenza un’autonoma valutazione sulla natura dell’illecito contestato.
Tornando quindi alla ministerialità, resta allora valida la pronuncia della Cassazione (sentenza 6 agosto 1992 nel caso Ferlin): «poiché ogni giudice è giudice della propria competenza, il giudice che (…) ritenga la propria competenza a decidere su un determinato fatto, nessun obbligo ha di devolvere la questione al giudice superiore o speciale che secondo le deduzioni delle parti sarebbe competente; l’eventuale errore di detto giudice nella valutazione sulla competenza andrà coretto dal giudice dell’impugnazione».
Il che significa che sulla ministerialità del reato del Presidente del Consiglio doveva decidere esclusivamente il Tribunale di Milano.
Se poi però vogliamo parlare di persecuzione nei confronti del Presidente del Consiglio, inviso da tutta la categoria dei magistrati, del potere di questa e delle riforme della giustizia possibili, è un’altra questione.
L’importante è non confonderle. Come invece sembra che avvenga.