E ancora, non spettava alla stessa Procura di Palermo omettere di chiedere al giudice l’immediata distruzione della documentazione relativa alle intercettazioni indicate ai sensi dell’articolo 271, comma 3, del Codice di procedura penale, senza sottoposizione della stessa al contraddittorio tra le parti e con modalità idonee ad assicurare la segretezza del contenuto delle conversazioni intercettate.
Le telefonate tra l’ex presidente del Senato Nicola Mancino e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano intercettate casualmente dalla procura di Palermo nell’inchiesta sulla trattativa Stato-Mafia vanno distrutte.
Le norme sono chiare e la Procura avrebbe dovuto farlo se voleva evitare un vulnus nella tutale della assoluta riservatezza delle comunicazioni del Quirinale.
Con la prima sentenza del 2013 la Corte costituzionale ha pubblicato le motivazioni della decisione.
La decisione risale al 4 dicembre scorso, quando la Consulta aveva accolto il conflitto di attribuzione sollevato dal Quirinale e le oltre 50 pagine scritte da Gaetano Silvestri e Giuseppe Frigo mettono nero su bianco le motivazioni.
Lunga e articolata la motivazione che va dal ruolo stesso del Presidente della Repubblica fatta di un’attività informale di stimolo e moderazione e persuasione che se fosse esercitata attraverso dichiarazioni pubbliche sarebbe destinata al fallimento.
Il Presidente della Repubblica è al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato e al di sopra di tutte le parti politiche; per poter svolgere il suo lavoro – dice la lunga sentenza – è indispensabile che insieme ai suoi poteri formali faccia un uso discreto di attività informali che possono procedere o seguire l’adozione di specifici provvedimenti sia per valutarne l’opportunità istituzionale, sia per verificarne poi l’impatto sul sistema delle relazioni tra poteri dello Stato. E questi – dice la Corte – richiedono necessariamente discrezione e riservatezza.
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