Non tutte le offese vengono sdoganate dalla Cassazione, pur nella visione a manica larga che a volte la Corte adotta nel prendere atto che la coscienza sociale ammette sempre più spesso gratuite volgarità.
Nello studio della giurisprudenza, una delle poche ricerche divertenti è quella che concerne le decisioni di questi ultimi anni dei giudici della Suprema Corte e di merito relative alla liceità o meno di alcune espressioni verbali che, seppure rientrano ormai nel gergo quotidiano, in talune situazioni vengono considerate ingiurie penalmente perseguibili mentre in altre un semplice modo di dire.
La cosa più singolare è che la stessa frase viene spesso interpretata in maniera diversa a seconda di circostanze, luoghi e tempi in cui viene usata (e ovviamente a seconda del collegio giudicante).
In genere nell’ambito… automobilistico sono consentite espressioni che in altro ambito sarebbero state sanzionate, i “non rompere i…”, i “vaff….” e simili, in genere vengono ritenuti, in determinati ambiti, espressioni non costituenti reato.
Dipende, secondo la Cassazione, da situazione a situazione; singolare per esempio è che l’espressione “italiano di merda” rivolta da un extra comunitario al soggetto con cui era nato un diverbio non sia stata considerata ingiuria, mentre al contrario un’espressione analoga “negro di merda” indirizzata da un italiano a un extra comunitario è stata considerata illecito.
Ciò in quanto nel primo caso si trattava di una semplice valutazione di disistima, mentre nel secondo caso, dicono i giudici, sussiste la componente razzista.
Se poi giungiamo nel campo delle separazioni e dei divorzi, possiamo dire che non c’è procedimento di separazione con addebito che non si trascini al seguito querele per percosse, per mancato adempimento del mantenimento e ovviamente per ingiuria e diffamazione.
LA LITE TRA MEDICI PER IL POSTO DI LAVORO
Tornando alla recente sentenza della Cassazione n. 5070 depositata il 21 gennaio 2013, è interessante esaminare le argomentazioni della Corte che ha confermato la condanna del Giudice di Pace di Messina e poi del Tribunale della stessa città, per il reato di ingiuria in danno di una collega di lavoro.
La questione era sorta in quanto la dottoressa aveva aggredito il collega accusandolo “di aver obbligato e costretto il direttore a farsi assegnare l’incarico”.
Il medico prescelto, evidentemente agitato dalle accuse, giurava tre volte sul proprio figlio di non aver costretto nessuno a ottenere l’ambito incarico: la dottoressa lo derideva in modo ironico, sostenendo, che non potevano esservi giustificazioni di sorta, in quanto l’incarico dirigenziale doveva essere a lei attribuito, anche solo in virtù della maggiore anzianità.
A questo punto il vincitore del concorso, irritato per il tono irriverente della collega, le indirizzava la classica frase: “sei una zoccola”.
Talché seguiva la querela.
LE MOTIVAZIONI DELLA CONFERMA DELLA CONDANNA
La Corte di Cassazione dunque confermava la condanna di primo e secondo grado, precisando come ogni volta che si deve offendere una donna è immancabile il riferimento ai presunti comportamenti sessuali della stessa, qualunque sia il ceto sociale di appartenenza, qualunque sia il grado di istruzione, qualunque sia la natura della discussione.
Gli uomini (ma molto più spesso le altre donne come si evince da analoghe sentenze), di norma non accusano l’avversaria di dire il falso, o di essere una imbrogliona o di sopravvalutarsi, accuse nella specie più pertinenti all’oggetto della discussione, ma di essere una puttana o una zoccola, offese del tutto inconferenti rispetto alla contesa verbale, con ciò non solo offendendo la reputazione della donna, ma cercando di porla in una condizione di marginalità e di disprezzo sociale.
E’ davvero singolare, osserva la Cassazione che un uomo che si presume di elevata cultura, non si renda conto della gravità di un tale comportamento in ordine della reciprocità delle offese.
UNA PRECEDENTE SENTENZA DEL PRETORE
La questione oggi esaminata dalla Cassazione, in realtà aveva avuto un esito totalmente diverso, se ben ricordo, moltissimi anni or sono laddove la questione era stata rimessa alla Giustizia dal Pretore di Bergamo.
Secondo questi l’espressione “zoccola” non doveva considerarsi un insulto.
In tal senso il magistrato per poter giustificare l’assoluzione, evidenziava che si trattava di un termine ambiguo che in effetti a seconda delle regioni di Italia assumeva un significato opposto.
In particolare rilevava che nel sud Italia il termine “zoccola” non indica una prostituta, bensì una particolare razza di topo delle fogne.
Insomma basta cambiare latitudine che muta il reato.
Infine per passare agli avvocati, è di circa una decina di anni or sono, la querela sporta da un avvocato al proprio cliente che lo aveva accusato “di essere un Berlusconi”…