Le “Carte fondamentali” propongono ideali, rivendicano principi, esprimono valori.
E più alti sono gli ideali, più esse possono apparire astratte, velleitarie, ingenuamente ottimiste.
Certo, l’interprete malevolo potrebbe -provando addirittura fastidio per quello che forse percepisce come una sorta di “libro dei sogni” (eguaglianza realizzata, lavoro assicurato, benessere e cultura diffusi ecc.)- giudicarle ipocrite, perché promettono, ma non garantiscono.
Ma, a ben vedere, la differenza tra un elenco di buone intenzioni e la individuazione/indicazione di futuri obiettivi, sta tutta nella fiducia, un po’ “illuministica”, che si ripone nella capacità nostra e dei nostri simili di pensare e realizzare strumenti tecnici, strutture sociali e forme di competizione/collaborazione diverse, innovative e (a volte) rivoluzionarie.
Una Costituzione non si scrive se non si hanno in mente “le magnifiche sorti e progressive” dell’umanità.
Così si spiega l’ecumenismo (il totalitarismo ottimistico, direi) delle “Carte”, dove espressioni inclusive come “tutti”, “ciascuno” e, per converso, “nessuno” ricorrono con impressionante frequenza.
Non fa eccezione uno dei cardini della nostra Costituzione: l’art. 21.
“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”.
Un’utopia, evidentemente, nel 1948.
O forse una affermazione valida limitatamente alle comunicazioni interpersonali, da uno a uno, da uno a (pochi) più: nei circoli politici, nei salotti, nei bar, nei convegni per iniziati o nei comizi aperti a persone che, in genere, già la pensano come l’oratore.
Oggi non più.
Infatti, grazie agli strumenti di comunicazione che sono stati messi a punto negli ultimi anni, quella che sembrava essere una pura affermazione di principio si è tradotta, inaspettatamente, in realtà.
La ipermediaticità e la intermediaticità hanno trasformato “tutti” (o quasi) in comunicatori e percettori di comunicazione. E ciò avviene secundum Constitutionem.
La Carta costituzionale, infatti, non consente solamente a chi professionalmente fa informazione -sostanzialmente i giornalisti- di comunicare per manifestare il proprio pensiero ma, appunto, a tutti, senza distinzione, professionisti e non professionisti e direi, addirittura, cittadini e non cittadini.
Ma allora è forse il caso di fermarsi a riflettere sul concetto preciso di comunicazione, in quanto “manifestare liberamente il proprio pensiero” significa comunicarlo ad altri, senza chiedere permessi, approvazioni o autorizzazioni; bisogna quindi accertare, innanzitutto, se l’ordinamento offre un preciso concetto di comunicazione.
La legge sulla privacy, (rectius: la stratificazione normativa che, in tema di privacy, si è avuta) fornisce il concetto -approssimativo- di comunicazione elettronica, che particolarmente ci interessa in questa sede (legge 228 del 2006, art 4, comma secondo, lettera a).
Dunque: per comunicazione elettronica s’intende “ogni informazione scambiata o trasmessa, tra un numero finito di soggetti, tramite un servizio di comunicazione elettronica, accessibile al pubblico“.
Dal legislatore attuale non ci si poteva aspettare una formula più elegante e priva di tautologie; quel che rileva, però, è che la comunicazione telematica viene individuata come informazione che possa viaggiare, avvalendosi di strumenti elettronici, in entrambi i sensi, tra vari soggetti, di numero finito; il che non significa di numero limitato e nemmeno di numero conoscibile.
È evidente che la comunicazione tramite internet rientra in questa categoria.
Dunque: attività di cronaca e di critica, come attività legittimamente aperte a tutti.
E però la manifestazione del pensiero, di cui all’art. 21, non sembra fare specifico riferimento al diritto di cronaca.
Pensiero e cronaca non sono la stessa cosa.
Il pensiero, infatti, è una produzione -più o meno originale- della mente umana; è pensiero un’opinione, un’idea, forse, un’intuizione: è pensiero, certamente, la critica.
E allora si può certamente dire che l’art. 21 prevede e disciplina il diritto di critica; ma il diritto di cronaca dov’è?
Ebbene, è ovvio che il diritto di cronaca è il presupposto di quello di critica; non posso esprimere un’opinione se non conosco i fatti, non posso criticare alcunché, se non sono informato su ciò che è accaduto. Il diritto di critica, l’esercizio del diritto di critica, presuppone che io sappia di che cosa parlo e abbia di che cosa parlare; è però significativo il fatto che l’articolo 21 nulla dica sul famoso jus narrandi, che tanto piace alla dottrina.
Bisogna allora parlare, piuttosto, di jus opinandi, vale a dire, appunto, del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero.
Dunque: non siamo liberi di comunicare il fatto in quanto tale, ma il fatto in quanto indicativo di un fenomeno socialmente significativo. Ci si imbatte, quindi, partendo direttamente dalla Costituzione, in uno dei tre requisiti che giurisprudenza e dottrina individuano come indispensabili perché possa essere esercitato correttamente, tanto il diritto di critica, quanto il diritto di cronaca, vale a dire la rilevanza sociale del fatto.
Gli altri requisiti, come è noto, sono la verità del fatto narrato (scil. la corrispondenza, nel nucleo essenziale, tra quanto accaduto e quanto riferito) e la c. d. “continenza”, vale a dire la correttezza espressiva, o meglio: il dovere di evitare, quando non strettamente necessario, di ricorrere ad espressioni inutilmente forti, truculente, volgari.
E non può esser dubbio, poi, che anche la comunicazione a mezzo internet, se assume la forma della cronaca e della critica, debba rispettare i tre sopra ricordati parametri.
Ciò non può essere visto come una limitazione, come pure qualcuno ha ritenuto, in considerazione della cosiddetta internet freedom, la libertà di internet:
Il principio generale è, ovviamente, che quello che non è consentito al di fuori della “rete” non è consentito neanche nella “rete”.
Ciò che internet ha reso possibile è il fatto che tutti possono fare informazione, tutti possono esprimere opinioni; ma, necessariamente, chiunque intenda esercitare “in rete” questo diritto di comunicazione deve osservare le norme (giuridiche e deontologiche) del giornalismo. In altre parole, il fatto che tutti possano, anche in maniera amatoriale, esercitare l’attività giornalistica attraverso “la rete” (se per attività giornalistica si intende la raccolta, il vaglio, la interpretazione, la elaborazione e la diffusione di notizie e/o opinioni attraverso i media), comporta che anche questi occasionali “cultori della materia” debbano mostrare la diligenza e la professionalità di chi fa giornalismo. E la cosa non deve meravigliare.
Il giornalismo, e più generalmente la comunicazione, è una….attività pericolosa e -dunque- deve obbedire a precise “norme precauzionali di funzionamento”.
D’altra parte, il codice della strada vige tanto per l’autista professionista (il tassista, il camionista, il guidatore di pullman), quanto per il privato che conduca un’autovettura; e la ragione è evidente: la circolazione stradale è causa di rischi e di danni e -pertanto- tutti sono tenuti a rispettare le stesse regole di prudenza.
Non a caso ormai si parla correntemente di one man newspaper, giornali, per così dire, fatti da una sola persona. Si tratta di un’espressione enfatica e suggestiva, utilizzata per significare –appunto- che chiunque, anche occasionalmente, saltuariamente e, persino, capricciosamente, può improvvisarsi giornalista e comunicare ad altri notizie e opinioni, ma, naturalmente, adottando le necessarie precauzioni.
Ovviamente, accanto al giornalismo amatoriale e, come abbiamo detto, occasionale, in internet, vi è anche un giornalismo professionale, che si esplica attraverso “la rete”: i giornali telematici (e Golem ne è un illustre esempio!) ormai sono all’ordine del giorno, sia come copia di giornali cartacei, sia come creature autonome.
Ma allora, è da chiedersi, per i “giornalisti della domenica” è auspicabile una “patente”? sono necessari corsi di preparazione e momenti di verifica?
Certamente no: e il motivo è evidente.
La guida di una vettura presuppone non solo conoscenze pratico-giuridiche (le norme sulla circolazione, la corretta lettura dei segnali stradali ecc.), ma anche il possesso di una capacità fisiopsichica, che consenta di padroneggiare un mezzo meccanico.
La patente è, in realtà, una abilitazione alla guida.
Ma una abilitazione alla espressione del proprio pensiero è, ovviamente, impensabile in un (inconcepibile per un) ordinamento democratico-liberale.
La libertà di espressione è “l’in sé” di tali ordinamenti.
Non a caso, bisogna ribadirlo, l’art. 21 è uno dei punti forti della nostra Costituzione; senza esagerare, la si potrebbe definire la Grundnorm del nostro sistema (“pietra angolare dell’ordine democratico” la qualificò, d’altra parte, nella sentenza 69/84, la Corte costituzionale).
Perché possa parlarsi di democrazia liberale, è necessario che ci sia libertà di espressione (e possibilità di conoscenza). Senza libertà di espressione, osservava Anna Arendt, la democrazia è una finta, e una finta crudele.
Il secondo comma dell’art. 21 proclama che la stampa non è soggetta a censura e non è soggetta ad autorizzazione.
Il terzo comma regolamenta, ma in maniera fortemente restrittiva, la possibilità di sequestrare stampati (solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nel caso di delitti per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, ovvero, ancora, in caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili).
Ora, benché la giurisprudenza di legittimità abbia ritenuto che al giornalismo (professionale o amatoriale) esercitato tramite internet non sia applicabile la normativa sulla stampa (perché una cosa è la stampa, una cosa è la telematica), benché -dunque- gli articoli “in rete” non siano protetti dal divieto di sequestro, che vige per i “prodotti a stampa”, non di meno, ad esempio, la Corte di cassazione ha ritenuto (sez. quinta, sent. n. 7319, 7.12.2007-15.2.2008, ric. Longhini e altri) che l’eventuale provvedimento ablativo, poiché non cade su di una res corporea, in quanto tale (il supporto magnetico, informatico ecc.), ma viene a incidere sull’esercizio di un diritto di libertà, vada adeguatamente giustificato da parte della autorità giudiziaria.
Orbene, il giornalismo in internet, se non gode della copertura dei commi secondo e terzo dell’art. 21 Cost., si avvale, comunque, di quella del primo comma.
Si pone però (si è posto), nonostante l’affermazione di principio sopra fatta, il problema se –in concreto e in talune circostanze- l’esercizio di un diritto fondamentale, costituzionalmente garantito, possa essere condizionato dal rilascio di un’abilitazione (o anche di una semplice autorizzazione) da parte dell’autorità “competente”.
In tema di libertà di espressione, la questione si è posta con riferimento ai comizi, alle manifestazioni, ai cortei, nel corso dei quali -ovviamente- si esercita il “diritto di parola”. Ma in tal caso, ragioni (o pretesti) di ordine pubblico possono interferire con la problematica relativa al “puro” diritto di comunicazione.
Quando, viceversa, di semplice manifestazione di opinione si tratta, quando, vale a dire, il comunicante agisce uti singulus e non in un contesto ambientale, connotato da un concorso di persone, con connessi aspetti attinenti alla sicurezza dei manifestanti e dei terzi, appare inconcepibile, almeno a nostro avviso, che “qualcuno” debba vagliare l’idoneità e certificare la capacità di chi intenda fare informazione/comunicazione/critica; e ciò, non solo, e non tanto, perché il momento del controllo potrebbe essere “piegato” a finalità selettive e discriminatorie, ma in quanto la stessa nozione di controllo è inconciliabile con la (libera) espressione del pensiero, attività “coessenziale”, quest’ultima, al regime liberale (Corte cost. sent. 9/65).
Ma proprio perché non può esservi censura, deve esservi responsabilità.
E di responsabilità “pesante” si tratta, anche perché “in rete” le notizie, se non rimosse, possono permanere sine die (una sorta di “fine pena mai”, se esse sono pregiudizievoli per qualcuno).
Non a caso, d’altra parte, nella giurisprudenza di legittimità, ci si comincia a porre il problema di un diritto all’oblio (sez. quinta, sent. n. 45051, 17.7.2009-24.11.2009, ricorrente V. e altro).
Anche il giornalista “saltuario”, anche il cronista dell’one man newspaper, allora, in quanto bonus civis, deve conoscere modalità e limiti entro i quali esercitare il suo diritto di critica/cronaca, anche perché egli sarà particolarmente esposto alla tentazione di immettere “in rete” anche notizie di scarsa rilevanza sociale, notizie legate al suo particulare, trasformando internet in una macchina moltiplicatrice del pettegolezzo.
In quanto cittadino, non può ignorare la legge, in quanto cittadino responsabile, deve agire con prudenza.
E sempre, come è ovvio, la diligenza, la correttezza e la responsabilità devono fare, non da contrappeso, ma da guida all’esercizio di diritti, esercizio che, nel caso in esame, consente una crescente possibilità di incidere nella sfera dei più delicati interessi altrui.
Un’ultima notazione, a tal punto, si impone, come corollario del ragionamento sin qui sviluppato e riguarda la disparità, sul piano sanzionatorio, tra il giornalista professionista e il giornalista amatoriale.
Il primo, se riporta una condanna penale in ragione della sua attività, può essere temporaneamente interdetto dalla professione, ai sensi dell’art. 30 del C.p.; il secondo, non essendo mai stato “autorizzato” o “abilitato”, non corre questo rischio.
Ma, a ben vedere, anche il giornalista professionista, se inabilitato, potrebbe “convertirsi” all’one man newspaper, aggirando il divieto.
E se è un giornalista famoso, la modalità semi-privata di immissione in circolazione delle sue opinioni non sarà certo di ostacolo alla loro diffusione.
Accade, in realtà, sempre più frequentemente, che le innovazioni tecnologiche vengano a sconvolgere assetti normativi che sembravano solidi e scontati.
Forse, anche per questo, sono maturi i tempi per ripensare (e ri-normare), ab imis fundamentis, la materia.